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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2012 alle ore 06:41.

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Sulla linea del fuoco di Homs era caduto l'11 gennaio scorso, colpito da un mortaio, Gilles Jacquier di France 2: il giornalismo di trincea, quello più vicino ai fatti, se non alla verità, conta adesso nuove vittime, un bilancio straziante di amici e colleghi che se ne vanno.
La benda nera sull'occhio destro perduto per una scheggia di granata in Sri Lanka, i capelli biondi sciolti sulle spalle, i tratti decisi ma gentili, Marie Colvin, 54 anni, americana, inviata del Sunday Times, era una figura indimenticabile. Sopravvissuta agli assedi di Beirut, Sarajevo, Baghdad, Kabul, questa giornalista indomabile è caduta a Homs, stretta nella morsa delle forze di Bashar Assad che hanno cannoneggiato il centro stampa allestito dai ribelli nel quartiere di Bab al-Amr.
La sua ultima testimonianza è arrivata con un servizio per la Bbc, dopo aver visto un bimbo morire. «È stato terribile - raccontava - aveva due anni. Un proiettile è penetrato nel petto, a sinistra, e il dottore mi ha detto: non posso fare nulla».
Insieme a lei è stato ucciso il reporter francese Remy Ochlik, 28 anni, mentre altri tre giornalisti sono rimasti feriti. Remy, vincitore di un World Press Photo per la Libia, era con Gilles Jacquier a Homs l'11 gennaio: li avevo visti partire in auto dall'Hotel Ferdoss di Damasco per l'ultimo servizio insieme, in fretta, quasi di corsa, come in un fotogramma veloce, un frammento d'immagine della routine di un inviato che adesso resta conficcato nella memoria.
La Siria precipita, ogni giorno di più, nel baratro del massacro, scivolando verso una guerra civile forse anche troppo annunciata. Il padre di Bashar, Hafez, sfoggiava un crudele cinismo, teneva il Paese con il pugno di ferro e non cedeva di un millimetro a Israele e agli Stati Uniti, ma aveva dimostrato di sapersi fermare un passo prima dell'abisso, con una capacità manovriera che lo distingueva da altri dittatori come Saddam Hussein. Bashar, invece, accumula gli errori e anche l'ultimo, alla vigilia della riunione internazionale "Amici della Siria" a Tunisi, è un passo falso clamoroso: l'uccisione dei giornalisti stranieri lo mette ancora una volta all'angolo. È indifendibile anche per i suoi supporter più tetragoni come Russia, Cina, Iran, che lo appoggiano perché la Siria è una delle loro "linee rosse" nella geopolitica mediorientale: ma anche a Teheran si chiedono, leggendo i rapporti da Damasco degli alleati Hezbollah, fino a quando sarà possibile puntellarlo.
La casa dove si trovavano i giornalisti uccisi è stata colpita intenzionalmente dalle forze governative, afferma l'organizzazione "Reporter senza frontiere", Damasco dichiara che non sapeva fossero entrati in Siria. Il regime concede pochi visti e vuole controllare il lavoro dei giornalisti, che per coprire il fronte dei ribelli devono infiltrarsi clandestinamente, come aveva fatto Anthony Shahdid del New York Times, morto giorni fa per un attacco d'asma al confine con la Turchia.
Gli eventi di Homs hanno scatenato la reazione di americani e francesi, mentre si profilano lunedì nuove sanzioni Ue. «Questo è un ulteriore esempio della sfrontata brutalità del regime di Assad», hanno dichiarato i portavoce di dipartimento di Stato e Casa Bianca. Furibondo il presidente francese Sarkozy: «Ora basta: la morte dei due giornalisti dimostra che il regime se ne deve andare. Non c'è nessuna ragione per cui i siriani non abbiano il diritto di scegliere il loro destino liberamente».
Se potesse sentire queste parole Marie Colvin sarebbe soddisfatta: questo è un mestiere che si fa per passione, anche per curiosità e ambizione, ma lei, quasi sempre vestita di scuro, con quella benda da pirata, era come la Madonna nera di un giornalismo assoluto e senza esitazioni, il più vicino alla verità e forse alla gente.
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