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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2012 alle ore 06:41.

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NEW YORK. Barack Obama ha proposto una profonda riforma fiscale per la Corporate America: un'imposta massima per la aziende ridimensionata al 28% dal 35 per cento. E per il settore manifatturiero, al centro delle preoccupazioni del presidente e della sua campagna di re-shoring, di rimpatrio delle attività industriali, scenderà al 25% da una media del 32 per cento.

Per scoraggiare l'export di profitti e impianti l'amministrazione ha invocato anche l'introduzione di una minimum tax, una tassa minima sugli utili esteri delle multinazionali pur senza specificare un'aliquota.

La Casa Bianca ha assicurato che il costo della svolta, ancora da calcolare, sarà "responsabile": la riforma, annunciata ieri mattina dal Segretario al Tesoro Tim Geithner e promessa da Obama fin dal suo Discorso sullo Stato dell'Unione, verrà pagata con l'eliminazione di un labirinto di dozzine di incentivi e sgravi che spesso riduceva comunque le aliquote applicate a molte aziende, in particolare del settore energetico. In tutto, negli Stati Uniti, sono state censite oltre 130 "scappatoie" legali. Nel mirino finiscono, ad esempio, la deducibilità di interessi e la svalutazione di velivoli aziendali. Saltano anche vantaggi legati ad alcune forme societarie, quali molte partnership. Rimangono e diventano permanenti, invece, sostegni considerati strategici, a cominciare da un credito d'imposta fissato ora al 17% per ricerca e sviluppo.

«Per rendere gli Stati Uniti più competitivi e creare posti di lavoro, dobbiamo riformare la normativa fiscale», ha dichiarato Geithner, precisando che il progetto promuoverà gli investimenti domestici e aiuterà in particolare le piccole imprese. Uno degli aspetti più rivoluzionari è sicuramente rappresentato dalla minimum tax sui profitti esteri. La legge prescrive che se utili rimangono oltreconfine non sono soggetti al regime fiscale americano: una norma che, secondo stime del Congresso, ha ormai creato una cassaforte internazionale di 958 miliardi di dollari per le imprese a stelle e strisce.

L'ambiziosa proposta ideata da Obama, la prima nel suo genere dal 1986, è tutt'altro che cosa fatta: il dibattito sulla riforma fiscale, pur considerata necessaria a stimolare l'economia da gran parte dell'establishment politico di Washington, potrebbe rimanere ostaggio della campagna elettorale. Serve l'approvazione parlamentare e il partito repubblicano ha le sue proposte: ha sottolineato che la media internazionale delle imposte aziendali è ancora inferiore, pari al 25 per cento. I candidati conservatori alle presidenziali hanno avanzato propri progetti: Mitt Romney propone, appunto, un'aliquota massima del 25% per le imprese e, da ieri, del 28% per gli individui; Rick Santorum un'imposta corporate del 17,5% che scende a zero per le aziende manifatturiere, Ron Paul una tassa non superiore al 15% e Newt Gingrich non oltre il 12,5 per cento.

Obama mira tuttavia a due obiettivi: semplificare la legislazione fiscale e incoraggiare l'industria ma anche dare ascolto a chi critica le imposte effettive spesso troppo basse pagate da numerose società. L'anno scorso la Corporate America ha versato 181 miliardi, pari al 12,1% dei profitti, al 7,9% delle entrate dell'erario e all'1,2% del Pil, percentuali da record negativo. Negli ultimi cinque anni ben 115 delle 500 principali società sono state soggette, a conti fatti, a un'imposizione fiscale inferiore al 20% e sono diventati celebri i casi degli "sconti" fatti a colossi del calibro di General Electric, Google e Boeing. Uno studio del 2008 trovò che durante almeno un anno dei precedenti sette oltre metà della Corporate America non aveva pagato un solo dollaro in tasse federali. Cifre che hanno sollevato non poche polemiche, anche se la ripresa economica dovrebbe entro il 2014 tradursi in maggiori imposte aziendali stimate per allora in rialzo a 430 miliardi, il 13,4% delle entrate complessive del fisco.

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