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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2012 alle ore 06:38.

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Nemmeno il «dividendo fiscale» dovrebbe riuscire a tagliare l'aliquota Irpef destinata ai redditi più bassi: un'ipotesi che per il momento rimane confinata fra i desideri irrealizzabili.
A «condannare» la misura all'impraticabilità, per il momento, sono almeno tre fattori, il più forte dei quali parla il linguaggio inoppugnabile dei numeri. Tabelle alla mano, ogni punto di aliquota costa oggi 4,5 miliardi allo Stato e la crisi economica, che nel tempo può aumentare la quota di contribuenti relegati nel primo scaglione di reddito, rischia in prospettiva di far aumentare ancora di più il conto per il bilancio pubblico. Portare al 20 l'aliquota oggi fissata al 23 per cento, di conseguenza, costerebbe 13,5 miliardi di euro: una somma stellare anche se l'anti-evasione dovesse fare i miracoli, visto che il 50% del «dividendo» sarà in ogni caso vincolato all'abbattimento del debito pubblico e una quota di ciò che rimane può essere comunque indirizzata a imprese e occupazione.
Il secondo ostacolo sulla strada dell'abbassamento di aliquote è il carattere inevitabilmente «strutturale» che una misura del genere finirebbe per assumere. Elementari ragioni di prudenza, fissate dalla legge, impediscono di fare affidamento certo sui risultati della lotta all'evasione, che sono calcolabili solo a consuntivo e non possono essere messi a bilancio in anticipo, tanto più in tempi grigi per la finanza pubblica. Per questa ragione, le regole sul «dividendo fiscale» vietano misure strutturali, e di conseguenza l'entità degli sconti extra da riconoscere ai contribuenti varierà di anno in anno in funzione degli incassi effettivi realizzati dalla macchina della riscossione. Cambiare la struttura delle aliquote Irpef ogni anno, per adeguarle alle risorse reali a disposizione, è però impossibile, a meno che non si voglia condannare contribuenti e sostituti d'imposta a risolvere ogni 12 mesi un nuovo rebus fiscale (per la gioia, forse, dei soli produttori dei software che guidano i conti delle imposte).
Terzo problema cruciale, la platea dei contribuenti che hanno diritto a beneficiare del «dividendo». La norma indirizza chiaramente ai redditi più bassi le risorse aggiuntive destinate alle persone fisiche ma, visto il meccanismo progressivo che regola l'Irpef, l'aliquota più bassa riguarda tutti i contribuenti. Un taglio di tre punti alla prima, di conseguenza, offrirebbe 450 euro di reddito disponibile in più anche a chi dichiara 100mila o 200mila euro all'anno.
Sconti così «generosi», nell'era del rigore dei conti, sembrano improponibili. Tanto più che il primo obiettivo di chi tiene i bilanci pubblici è quello di raggiungere e mantenere il pareggio senza ricorrere al nuovo aumento dell'Iva, già in calendario per ottobre se il rapporto fra entrate e uscite lo rendesse inevitabile. Una misura di questo tipo, però, darebbe un nuovo colpo ai consumi, tutt'altro che necessario visto il ciclo economico.
Il problema da risolvere, quando si punta tutto sulle detrazioni, è semmai quello di evitare che gli sconti prodotti dalla lotta al nero finiscano paradossalmente anche nelle tasche di chi dichiara poco solo perché "aggiusta" la realtà da presentare al Fisco. Uno scoglio, questo, che può però essere superato solo se la lotta al nero riesce davvero a diventare strutturale.
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I NUMERI
4,5 miliardi
Il costo
È l'onere per i conti pubblici prodotto dall'abbassamento di ogni punto percentuale nell'aliquota destinata al primo scaglione di reddito. Tagliare l'aliquota dal 23 al 20%, di conseguenza, costerebbe 13,5 miliardi
20 milioni
Primo scaglione
Sono i contribuenti che nel 2010 (sull'anno 2009) hanno dichiarato meno di 15mila euro. L'abbassamento dell'aliquota, però, riguarderebbe tutti

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