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Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio 2012 alle ore 08:14.

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Siamo dunque alla guerra civile e a un conflitto per procura? Dopo mesi di bombardamenti il regime siriano non ha domato la rivolta, segnale inequivocabile che l'opposizione armata si è rafforzata e gli apparati repressivi non sono così efficaci, nonostante siano cinque volte quelli di Gheddafi. Corruzione e letargia burocratica non sono da sottovalutare nel comprendere l'inefficienza del sistema: i servizi segreti, per fare un esempio, sono una dozzina in concorrenza tra loro. Lo stesso Bashar Assad, che non ha mai controllato direttamente la sicurezza, appare a volte ostaggio di una cerchia di familiari e generali.
I ribelli si sono organizzati e hanno ottenuto sostegno militare da fuori: non hanno aspettato certo il via libera degli americani, restii a intervenire. L'opposizione, pur frammentata, è unita su un punto: «Armateci per contrattaccare il regime», un'ottima idea secondo i sauditi, delusi dalle esitazioni occidentali.
Un'alternativa politica alle armi, alla vigilia del referendum costituzionale di domani, appare poco praticabile. Forse è possibile una tregua, non un vero negoziato, anche se ci proverà il nuovo inviato internazionale, l'ex segretario dell'Onu Kofi Annan.
Il Consiglio nazionale, istanza politica basata all'estero che ha ottenuto un riconoscimento internazionale di credibilità, si è alleato con il Free Syrian Army, rappresentato da un comando di ufficiali insediato in Turchia: era questa l'unica soluzione per poter contare dentro al Paese.
Come si è arrivati a Tunisi? La crisi, iniziata il 15 marzo 2011, ha attraversato tre fasi. Nella prima è stato protagonista un movimento per le libertà civili e politiche che rieccheggiava la primavera tunisina e quella egiziana. Nella seconda, in coincidenza con una sempre maggiore repressione, si è accentuata la radicalizzazione confessionale in tre aree calde, Deraa, Homs, Idlib, dove si sono formati gruppi armati con i disertori dell'esercito e formazioni sunnite. Adesso siamo al terzo atto, un confronto tra l'asse sciita-alauita (minoranza a cui appartiene Assad), sostenuto per ragioni geopolitiche da Russia e Cina, e un arco sunnita costituito dalle monarchie del Golfo, Fratelli Musulmani e salafiti (islamici radicali).
Una lettura della situazione schematica che non dispiace a Washington: da una parte ci sono Damasco-Teheran-Hezbollah (con i palestinesi di Hamas che si sono chiamati fuori lasciando la Siria), mentre il fronte opposto è guidato dai cosiddetti arabi "moderati", come Arabia Saudita, Emirati e Qatar, già in prima linea nell'appoggiare il Cnt a Bengasi e i Fratelli Musulmani. È evidente che il dossier Iran, storico sponsor di Assad e Hezbollah, condiziona anche il caso siriano. Del resto la Guida suprema Ali Khamenei tempo fa ha dichiarato che l'alleanza Iran-Siria è irrinunciabile.
Siamo di fronte, secondo uno studio dell'istituto francese di intelligence Crt-Avt, a una sorta di "libanizzazione prefabbricata" della crisi con tre protagonisti principali: il regime e le forze di sicurezza, che hanno sempre battuto il tasto sulle ingerenze esterne; i Fratelli Musulmani e i gruppi salafiti sostenuti da governi o forze politiche dei Paesi confinanti, come Giordania, Libano, Turchia e in parte l'Iraq (in Siria ci sono 1,2 milioni di profughi iracheni); le potenze regionali e internazionali coinvolte nell'area: Qatar, Arabia Saudita, Stati Uniti e Francia.
In questo quadro hanno avuto un ruolo fondamentale i media del Golfo. Come in Libia, Al-Jazeera e Al-Arabya sono state decisive per formare la narrativa del conflitto distruggendo l'immagine di Assad: la tv del Qatar da mesi dedica il 60% delle news alla Siria.
Una mano decisiva è venuta però dalle reazioni maldestre e crudeli del regime che lo hanno reso impresentabile. Se poi la libanizzazione prefabbricata dovesse progredire, magari ribaltando l'unica cosa accettabile di Assad, una certa tolleranza religiosa - già crollata anni fa nel vicino Iraq - allora vorrà dire che cambieremo registro e narrativa, con il tipico cinismo esibito negli affari mediorientali: per ora il maggiore partito siriano rimane quello della paura.
© RIPRODUZIONE RISERVATA di Alberto Negri

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