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Questo articolo è stato pubblicato il 07 marzo 2012 alle ore 06:37.

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Il premier spagnolo Mariano Rajoy sembra non avere più vie di scampo, stretto tra la linea del rigore dell'Unione europea e la mezza rivolta delle regioni autonome, in larga parte governate dal suo Partito popolare, incapaci di frenare la spesa nonostante i vincoli imposti dall'amministrazione centrale.
Rajoy dovrà definire entro la fine di marzo i tagli e (con tutta probabilità) le nuove tasse per recuperare nel bilancio pubblico altri 15 miliardi di euro, da raggiungere alle misure di austerity già introdotte a gennaio, e arrivare nell'anno fiscale a ridurre il deficit di 29,5 miliardi di euro, pari al 2,7% del Pil nazionale: una manovra senza precedenti per il Paese che potrebbe diventare anche più pesante tenendo conto degli effetti diretti della crisi economica in corso: minori entrate fiscale e maggiori costi sociali per l'aumento della disoccupazione.
Un risanamento tuttavia ancora insufficiente secondo l'Unione europea che insiste per avere spiegazioni sulla decisione con la quale Rajoy, solo due giorni fa, ha rivisto, in tutta solitudine, l'obiettivo di deficit per il 2012: abbandonando il rapporto del 4,4% sul Pil per accontentarsi di un più credibile 5,8 per cento. «È essenziale che la Spagna definisca una strategia di medio termine per raggiungere i suoi obiettivi sul debito», ha ribadito ieri il commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn sottolineando che «la Spagna è uno dei Paesi che si sono impegnati a correggere il proprio deficit entro il 2013 per riportarlo al di sotto del 3% del Pil».
Il leader conservatore spagnolo si è già dovuto rimangiare molte promesse: «Rispetteremo gli impegni presi con Bruxelles, dimostreremo che la Spagna è un Paese di cui ci si può fidare», diceva a fine dicembre; «risaneremo il bilancio ma non metteremo un euro in più di tasse», affermava a gennaio, pochi giorni prima di alzare in un colpo solo le imposte sui redditi da lavoro, quelle sulla casa e quelle sui capital gain. Rajoy ha scaricato le responsabilità del deficit accumulato alla precedente stagione socialista, al suo predecessore José Luis Zapatero: la Spagna, secondo i dati diffusi dal nuovo Governo conservatore, ha chiuso il 2011 con un disavanzo dell'8,5% rispetto al Pil mentre aveva promesso ai partner europei di scendere al 6,6 per cento.
In meno di un anno, dalla scorsa estate, molto è cambiato e la Spagna - che si muoveva su una prospettiva di crescita, seppure faticosa - oggi sta per entrare in recessione con il Pil che nel 2012 si contrarrà di almeno un punto percentuale. Le piazze hanno ricominciato a riempirsi di manifestazioni, i disoccupati sono già 5,5 milioni: la crisi finanziaria internazionale, il crollo dell'immobiliare e poi le tensioni sui debiti sovrani hanno messo in ginocchio un Paese abituato dagli anni Novanta a sognare con le banche e il mattone.
Rajoy ha mostrato fermezza con la Ue e altrettanta ne dovrà avere con le 17 autonomie regionali. Il buco del bilancio spagnolo è nella gestione di Andalusia, Valencia, Catalogna e delle altre amministrazioni locali che controllano più di un terzo della spesa pubblica nazionale: dopo i tagli di Zapatero e la prima stretta di Rajoy, il risanamento chiesto dalla Ue dovrà passare da lì, nonostante le resistenze.
«Non c'è più un euro, è impossibile rispettare l'obiettivo di deficit all'1,3% del Pil che ci chiede Madrid», dice Ignacio Diego, il presidente della regione Cantabria, che già l'anno scorso ha sforato il limite, superando il 4 per cento. «Quello che gli spagnoli non vogliono è che i tagli ricadano sulla salute e sull'istruzione», afferma José Antonio Grinan, presidente socialista dell'Andalusia, quasi anticipando le prossime scelte di Rajoy.
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