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Questo articolo è stato pubblicato il 09 marzo 2012 alle ore 07:47.

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KAMAISHI. Dal nostro inviato
Kobelco, Sumitomo, Komatsu, Kato, Hitachi, Yanmar, Maeda: sono questi i nomi delle aziende più evidenti nel paesaggio attuale della costa settentrionale del Giappone che si affaccia sul Pacifico. Campeggiano sulle migliaia di macchine movimento terra che operano furiosamente tutto il giorno per completare il riassetto delle infrastrutture danneggiate e raggruppare in alti cumuli milioni di tonnellate di detriti.
A un anno dallo tsunami, la "ripulitura" del territorio è ancora in pieno svolgimento, mentre la ricostruzione delle abitazioni langue. Dove invece tutto appare già riattivato è nelle strutture industriali. Ne è un simbolo la scena che si presenta intorno alla città-martire di Kamaishi: tante case diroccate, spazi aperti in cui restano solo le fondamenta delle abitazioni che furono, mentre gli impianti della Nippon Steel mandano al cielo dalle ciminiere colonne di denso fumo. Il miracolo post-tsunami è stata la rapidità con cui l'industria giapponese è riuscita a ripristinare una catena manifatturiera messa in crisi dalla fermata di molte fabbriche di componentistica essenziale. Così il Pil reale 2011 si è contratto "solo" dello 0,7%, come annunciato ieri dopo la revisione al rialzo da -0,6 a -0,2% del dato sul quarto trimestre dovuta ai maggiori investimenti di capitale delle imprese in vista dell'atteso boom della domanda per la ricostruzione (che fa ipotizzare una crescita del Pil 2012 tra l'1,5 e il 2%). Una buona notizia che ha messo il ombra il riapparire, dopo tre anni, di un deficit mensile nelle partite correnti.
Se il sisma ha provocato lo tsunami, lo tsunami ha provocato poi un vero terremoto nella strategia gestionale e produttiva delle aziende, non solo giapponesi. «La catastrofe ha messo in luce il rischio di avere stabilimenti manifatturieri in Giappone - sottolineano al Fujitsu Research Institute –. Il sistema-Paese deve riguadagnare la fiducia. Altrimenti è in pericolo il suo ruolo di fabbrica del mondo per i componenti "core”». L'esempio classico è stato quello dell'unico stabilimento mondiale che produce pigmento per vernici Xirallic: da Detroit a Francoforte, la clientela di varie case non giapponesi non ha potuto scegliere il colore preferito per la nuova auto. Un trauma globale, anche se la fabbrica di Onahama (Fukushima) della tedesca Merck è riuscita a riprenderne la produzione già a giugno. «A breve inizieremo la produzione di Xirallic anche in Germania a Gernsheim - afferma il portavoce Stephen Muller -. Per rafforzare l'affidabilità delle forniture, non si può fare a meno di un sito alternativo».
L'insegnamento per tutti è stato: mai più un unico fornitore insostituibile, mai più produzioni in un solo posto senza un'alternativa di back-up in un territorio diverso. Nelle aziende dell'auto, il sisma è arrivato fino a Nagoya, dove la produzione si è dovuta fermare per mancanza di componenti dal Tohoku, con dolorose perdite di quote di mercato all'estero; in autunno, inoltre, le alluvioni in Thailandia hanno sconvolto la loro principale base di componentistica all'estero. «Adesso però le case nipponiche sono in piena ripresa: gruppi come Toyota e Honda dovrebbero registrare rialzi a tripla cifra degli utili», afferma Christopher Richter del Clsa. A suo parere, la lezione è stata appresa. Nella patria del "just in time", l'enfasi è passata sul "just in case", ovvero dall'impegno esasperato verso una produzione snella con scorte minime a un'attenzione alla sostenibilità in caso di emergenze. Un sacrificio di efficienza e una immobilizzazione addizionale di working capital, con il rischio di appesantire i costi di gestione. Un onere che grava anche sui fornitori: ad esempio, le case automobilistiche hanno imposto alla Toshiba un "Business continuity plan" (Bcp). Nel settembre scorso, il gruppo elettronico è stato in grado di fornire Bcp per ogni categoria di componenti che produce e ha iniziato a diversificare la sua base manifatturiera in Paesi nuovi come la Malaysia.
Toyota, che pure ha confermato il Tohoku come terza base produttiva nazionale, ha imparato a sue spese che non basta riferirsi ai fornitori Tier1, ma che deve investire anche sulla "visibilità" dei fornitori minori. Uno dei nuovi obiettivi aziendali sarà quello di arrivare a standardizzare il design dei componenti della metà delle 4-5mila parti utilizzate entro 4 anni, in modo da poterli utilizzare su più modelli. In questo senso, l'effetto terremoto sta accelerando un'evoluzione già iniziata in un mercato dell'auto dove ormai si vendono più vetture sui mercati emergenti: i costruttori appaiono consapevoli che a garantire il successo non basta più la filosofia manifatturiera del kaizen (miglioramento continuo) o del suriawase (sofisticato processo che integra un gran numero di componenti e richiede un coordinamento complesso tra lavoratori specializzati e motivati).
Alla Renesas Electronics, poi, il terremoto è stato l'occasione per varare un monitoraggio sistematico delle scorte, anche presso i clienti, equivalente alla tracciabilità in una filiera alimentare. La sensazione è che la Corporate Japan abbia colto l'occasione per abbassare ogni componente di rischio: da quella energetica (con piani di back-up per una generazione autonoma di elettricità) a un maggior ricorso a importazioni di componenti (anche contro il superyen). Masaki Kuwabara di Nomura, avverte di non esagerare: «La concentrazione nel Tohoku dell'industria dei componenti elettronici e dei materiali si è rivelata pericolosa. Ma ora si può profilare un rischio contrario: quello di dover importare troppi componenti dall'estero, il che finirebbe per ridurre la competitività dell'export e prospettare un esaurimento della base manifatturiera del Paese».

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