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Questo articolo è stato pubblicato il 09 marzo 2012 alle ore 21:22.

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La vicenda giudiziaria di Marcello Dell'Utri continua da 16 anni, un processo che sembra interminabile com'è accaduto in molti dei più controversi casi della storia repubblicana. Il primo atto formale è del 2 gennaio del 1996 quando la Procura di Palermo apre un'inchiesta su Dell'Utri, in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tullio Cannella. Ma il primo a fare il nome del senatore del Pdl, nel 1994, era stato un altro pentito, Salvatore Cancemi, interrogato dalla Procura di Caltanissetta. Il processo di Palermo, apertosi il 5 novembre del 1997, si conclude dopo 256 udienze protrattesi per sette anni. Con Dell'Utri, siede sul banco degli imputati anche Gaetano Cinà, incensurato ma secondo l'accusa mafioso del clan di Malaspina, ma considerato il trait-d'union di Cosa Nostra tra Palermo e Milano.

L'istruttoria dibattimentale è complessa, con l'innesto anche di un intricato filone relativo alle holding da cui nacque Fininvest, oggetto di una ponderosa consulenza del perito Gioacchino Genchi. Ben 270 i testimoni ascoltati, e fra loro una quarantina di collaboratori di giustizia, da Salvatore Cancemi a Francesco Di Carlo, fino a Gaspare Mutolo, Nino Giuffrè, Giovanni Brusca e Tommaso Buscetta, quest'ultimo citato dalla difesa. Al termine della requisitoria, per Dell'Utri i pm Antonio Ingroia e Domenico Gozzo chiedono 11 anni mentre è di 9 anni la richiesta per Cinà.

Il Tribunale di Palermo presieduto da Leonardo Guarnotta, pronuncia la sentenza l'11 dicembre del 2004, dopo 13 giorni di camera di consiglio: 9 anni a Dell'Utri, per concorso esterno in associazione mafiosa, 7 anni a Cinà. Nelle 1.786 pagine delle motivazioni, il collegio di primo grado scriveva tra l'altro: «La pluralità dell'attività posta in essere da Marcello Dell'Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di cosa nostra, alla quale è stata, tra l'altro offerta l'opportunità, sempre con la mediazione di Marcello Dell'Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti della economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici». I giudici ricordavano di aver preso in esame «fatti, episodi ed avvenimenti dipanatisi dai primissimi anni '70 e fino alla fine del 1998», e profilavano «la funzione di garanzia svolta da Dell'Utri nei confronti di Berlusconi, il quale temeva che si suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, adoperandosi per l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, quale 'responsabilè e non come 'mero stallierè».

L'appello
Il 30 giugno del 2006 parte il processo d'appello davanti alla Corte presieduta da Claudio Dall'Acqua. A sostenere l'accusa, il pg Antonino Gatto. Marcello Dell'Utri è rimasto l'unico imputato perchè Cinà è frattanto deceduto, e davanti ai giornalisti va subito all'attacco, parlando di «accuse politiche» contro di lui. La Corte respinge la richiesta unanime del Pg e dei difensori di ascoltare Silvio Berlusconi, che in primo grado era stato convocato dai giudici ma si era avvalso avvalso della facoltà di non rispondere, essendo indagato di reato connesso.

Il ruolo dei pentiti
Nel 2009, mentre il processo di secondo grado è in corso, piombano sul senatore del Pdl i verbali dell'allora dichiarante Gaspare Spatuzza, che riferisce commenti che gli sarebbero stati fatti nel gennaio del 1994 del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano: «Abbiamo ottenuto quello che volevamo: abbiamo il Paese in mano. E non sono stavolta quei crastazzi dei socialisti, ma Silvio Berlusconi e il nostro compaesano». Il compaesano sarebbe stato appunto Dell'Utri. Per sentire Spatuzza la Corte si sposta a Torino dove il 4 dicembre del 2009 ricorda un incontro al bar Doney di via Veneto: «Graviano mi disse che chi ci garantisce 'è quello di Canale 5 e che tra i nostri referenti c'era un nostro compaesano». Una settimana dopo, l'11 dicembre, è il momento dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che sono ascoltati in videoconferenza e non confermano le dichiarazioni di Spatuzza.

Intanto, il 26 febbraio, deponendo al processo Mori, Massimo Ciancimino sostiene che «Dell'Utri sostituì» suo padre Vito Ciancimino come mediatore nella trattativa tra Stato e mafia e che è lui il «senatore» citato nei 'pizzinì che il padre si scambiava con Provenzano. Massimo Ciancimino si spinge fino a dire che tra il politico e il boss «c'erano contatti diretti». Ma la Corte non ritiene di citare Ciancimino junior in aula e il 5 maggio rigetta per la seconda volta la richiesta di citarlo, perchè lo giudica contraddittorio e sostanzialmente non credibile. «Dell'Utri contribuì alla trattativa e Provenzano si fidava di lui», dice però nella requisitoria il Pg che chiede la condanna a 11 anni per l'imputato.

I giudici si ritirano in camera di consiglio il 24 giugno e prima di farlo, irritualmente dichiarano: «Siamo indifferenti alle pressioni medianiche e rispondiamo solo di fronte alla legge e alla nostro coscienza». La sentenza d'appello viene emessa cinque giorni più tardi, il 29 giugno del 2009. Dell'Utri viene condannato, ma la pena viene ridotta a 7 anni. Secondo la Corte, Dell'Utri è responsabile di concorso esterno in associazione a delinquere semplice fino al 1982, e di concorso esterno in associazione mafiosa fino al '92.

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