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Questo articolo è stato pubblicato il 12 marzo 2012 alle ore 06:37.

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Giuseppe Latour
Francesco Nariello
Regioni al palo sul taglio ai costi della politica. Il 2012, guardando alla manovra di Ferragosto, sarebbe dovuto partire con una generosa potatura delle spese derivanti da consigli e giunte regionali: dal numero di politici stipendiati al volume dei loro emolumenti, la lista dei risparmi da portare a casa, entro il 13 febbraio, sarebbe stata lunga. Purtroppo, però, è rimasta mestamente sulla carta.
L'articolo 14 del decreto legge 138/2011 puntava i riflettori su cinque capitoli di costo delle Regioni: numero di consiglieri e assessori, buste paga dei consiglieri, sanzioni per i politici assenteisti, sistema previdenziale. Solo su questi ultimi due fronti, a sei mesi dal decreto, il bilancio è parzialmente in attivo. Sulla questione delle sanzioni, infatti, il decreto lasciava mano libera alle Regioni e prevedeva genericamente che il trattamento economico dei consiglieri fosse commisurato all'effettiva partecipazione ai lavori. In pratica, basta anche una sanzione minima a una qualsiasi voce della busta paga per essere in regola. E quasi tutte le Regioni, nei propri statuti, già prevedevano meccanismi di questo tipo. Chi non li aveva, li ha introdotti.
Sul fronte previdenziale tutte le amministrazioni, messe con le spalle al muro dalle polemiche degli ultimi mesi, hanno abolito i vitalizi. La manovra, però, prevede anche il passaggio al sistema contributivo per il trattamento pensionistico. Una scelta che la maggior parte delle Regioni deve ancora portare a termine.
Ma il fronte sul quale si registra uno stallo quasi totale, insieme al capitolo stipendi (si veda l'articolo in basso) è la riduzione di consiglieri e assessori. In questo caso la manovra stabiliva che la composizione delle assemblee fosse ridimensionata, a partire dalla prossima legislatura, in base alla popolazione: un criterio che impone tagli anche pesanti a quasi tutti i governi locali.
Due sole le eccezioni, Lombardia ed Emilia Romagna, che già rientravano nei paramentri fissati dal decreto con, rispettivamente, 80 e 50 consiglieri. Non hanno, quindi, avuto bisogno di approvare nuove sforbiciate.
Le altre, entro il 13 febbraio, avrebbero dovuto varare una legge per ridurre la dimensione dei consigli. Ad oggi, però, le Regioni virtuose sono appena due. Ad aver rispettato i tempi sono solo Toscana e Veneto, che hanno deliberato una potatura in linea con i parametri fissati dal Governo. A metà strada la Calabria, che questa settimana dovrebbe assestare il suo taglio.
Dietro la lavagna, quindi, finiscono tutte le altre. Molte amministrazioni non si sono neppure mosse. Diverse hanno sollevato la questione di costituzionalità, ipotizzando che la norma invadesse competenze esclusive delle Regioni e aspettano il responso dei giudici (si veda l'articolo in fondo).
Qualcuna, invece, si è data da fare, ma ipotizzando tagli inferiori a quelli richiesti. Come Sicilia e Friuli Venezia Giulia che hanno avviato l'iter – per completare il quale servirà comunque il via libera del Parlamento (in virtù dello statuto speciale) – per snellire le proprie assemblee, senza però rispettare i parametri del decreto. Nel caso della Sicilia l'obiettivo è scendere a quota 50 consiglieri, ma la Regione si è fermata a 70, rispetto agli attuali 90. Stesso discorso per il Friuli Venezia Giulia: attualmente sono 59, dovrebbero scendere a quota 30, mentre la proposta di legge ipotizza di arrivare a 48.
Il taglio degli assessori avrebbe dovuto seguire a cascata quello dei consiglieri: il decreto, infatti, stabilisce che tra componenti della giunta e del consiglio deve esserci un rapporto massimo di uno a cinque. Ad esempio, nel caso di un'assemblea composta da 50 membri, il governo locale non può superare le dieci unità. Anche qui, in generale, le Regioni sono rimaste bloccate. E persino l'Emilia Romagna, già in regola sul numero di consiglieri, si ritrova due assessori di troppo: dodici al posto di dieci.
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