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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2012 alle ore 07:04.

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ROMA - «Ora si tratta di decidere in che direzione bisogna mandare il Paese: se verso la Germania, verso l'Europa dei grandi Paesi manifatturieri, o verso la deregolamentazione degli Stati Uniti. Questo il bivio. Per il resto, quale mix di indennizzo e reintegro, la parola finale la deve mettere il tavolo delle parti sociali. I dettagli non spettano al Pd».

La preoccupazione ai piani alti di Largo del Nazareno in queste ore è palpabile. Pier Luigi Bersani anche ieri ha speso buona parte della giornata al telefono con i leader sindacali. L'obiettivo sullo spinoso nodo dell'articolo 18 è il modello tedesco: ossia è il giudice a decidere tra reintegro ed equo indennizzo. E la speranza è che alla fine la Cgil non si alzi dal tavolo e firmi l'accordo. Auspici in questo senso arrivano da tutte le anime del Pd: dal responsabile economico vicino alla Cgil Stefano Fassina al lettiano Francesco Boccia fino ai veltroniani, che con Stefano Ceccanti confidano nei buoni risultati della moral suasion messa in atto dal capo dello Stato Giorgio Napolitano. Boccia lancia poi un segnale al Governo anche sul metodo: si eviti la «clava» del decreto e si proceda con una legge delega che permetterebbe un confronto parlamentare più accurato. E soprattutto dopo il voto per le amministrative.

Sulla riforma del lavoro, ora che si sta stringendo, il Pd è paradossalmente più unito di qualche settimana fa. Il fatto è che tutti sono consapevoli che, firma o non firma della Cgil, il Governo non può cadere su questo e si deve andare avanti. Lo dice chiaramente Massimo D'Alema, che durante la commemorazione di Marco Biagi ricorda la necessità di modernizzare «in senso europeo» il mercato del lavoro: «Le riflessioni di Marco Biagi – ha spiegato l'ex premier – possono aiutarci a mettere al centro le persone in carne ed ossa e a superare astratte contrapposizioni di principio». «Il Governo non può presentarsi al vertice europeo con le mani vuote», incalza il veltroniano Ceccanti.

Della speranza in una riforma condivisa e anche «un po' più della speranza» parla anche Fassina. «I sindacati non sono su posizioni tanto diverse, sono stati fatti passi avanti verso una posizione unitaria. Ora è il Governo che deve dare prova di responsabilità». Fassina ricorda poi che sul tavolo non c'è solo l'articolo 18 e la questione dei licenziamenti per motivi disciplinari su cui si è impuntata la Cgil. «Bisogna vedere quello che succede alla mobilità – sottolinea –. Non possiamo lasciare a piedi lavoratori sessantenni a 7 anni dalla pensione con 18 mesi di indennità. Poi gli ammortizzatori sociali: il sussidio messo in campo dal governo non è universale, molte forme di precariato restano fuori». Come a dire: il mosaico è composto da vari tasselli, e uno può compensare l'altro. Se non per la Cgil, almeno per il Pd.

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