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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2012 alle ore 06:36.

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I giorni della riforma del lavoro coincidono, 10 anni dopo, con i giorni plumbei dell'assassinio di Marco Biagi. La storia si sta incaricando di suturare una ferita profonda nel Paese. È arrivato finalmente il tempo per rendere onore a Marco Biagi innovatore e visionario, cittadino europeo consapevole e riformista pragmatico come era il suo maestro Giuseppe Federico Mancini. Era, il suo, il riformismo più efficace perchè sa camminare nel tempo che gli è dato e con i mezzi che gli sono concessi senza perdere di vista il grande obiettivo della modernizzazione. Era un uomo mite e cordiale, di un entusiasmo che si è rivelato addirittura ingenuo quando è finito nel cinico gioco della politica e delle battaglie ideologiche. Un docente con vedute larghe e affetto profondo per i suoi allievi che, invece, una stagione di odio cieco trasformava, giorno dopo giorno, in un bersaglio: più Biagi professava un'estensione intelligente delle tutele e delle garanzie, più veniva etichettato come portatore di precarietà. Invece Marco Biagi voleva cambiare le cose e non si accontentava di far finta di non vedere un mercato del lavoro doppio e ipocrita (chi è protetto e chi no; chi è nel fortino della legge e chi è nella palude del sommerso). Marco Biagi, che in pochi ricordano essere anche l'ispiratore della legge sulla sicurezza sul lavoro, la celebre 626, guardava ai diritti della persona e alle esigenze di competitività del Paese, da realizzare anche con l'uso più efficiente del fattore lavoro. Lo hanno ucciso dieci anni fa. La bici appoggiata al muro (niente scorta nonostante le minacce!) la borsa caduta vicino al suo sangue. Sono in tanti ad aver raccolto quella borsa. Ha fatto tanta strada. (a.o.)
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