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Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2012 alle ore 13:38.

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La rabbia degli elettori Pd monta su web. Dopo la rottura dell'accordo sulla riforma del lavoro con i sindacati divisi, una parte della base è sempre meno convinta dell'appoggio di Pier Luigi Bersani al governo Monti. E lo dice direttamente al segretario sulla sua pagina Facebook. «Giuro che se il Pd voterà a favore della "riforma" del mercato del lavoro, non solo non voterò mai più il Pd, ma farò di tutto affinchè la gente che conosco smetta di votare il Pd!», scrive Tito. Gli fa eco Fabrizio: «Spero che il Pd riesca a ritrovare l'orgoglio di sinistra e non accetti supinamente ciò che gli viene proposto!!!». «È ora di togliere la spina, prima dell'irreparabile», sentenzia Francesco.

Il segretario sulla trattativa rifiuta di utilizzare il termine accordo. Fino all'ultimo ha invitato il Governo a fare di tutto per «colmare le distanze» con i sindacati perchè solo un'intesa su una riforma così cruciale «può garantire la coesione sociale». Tra i leader dei partiti che sostengono il Governo Monti è certo il più scontento ma, almeno per ora, trattiene il disappunto. Fino a questa sera, quando ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, promette, parlerà della questione. Bersani conta di correggere in Parlamento quello che «c'è da migliorare» nell'impostazione del Governo (lo scrive pure via Twitter). Anche perché un tema centrale per le politiche del Pd come il lavoro non può essere per intero relegato a un unico simbolo, che in molti tra i democratici considerano una sorta di scalpo offerto al mercato.

Il partito resta diviso. Ma sulla linea del segretario per modifiche in Parlamento c'è quasi tutto il gruppo dirigente democratico (sia bersaniani sia dalemiani). Massimo D'Alema definisce il testo sull'articolo 18 «confuso e pericoloso», da migliorare in Aula.
Per il sì alla riforma il vicesegretario Enrico Letta (comunque favorevole a miglioramenti in Aula), il senatore e giuslavorista Pietro Ichino, ma anche Giuseppe Fioroni (che auspica però perfezionamenti al tavolo o in Parlamento), oltre ai veltroniani.
Decisamente contrari alcuni esponenti Pd di tradizione socialdemocratica o di estrazione sindacale, come Paolo Nerotti, Cesare Damiano e Vincenzo Vita.
Critico il responsabile economico del partito, Stefano Fassina il quale si augura che la riforma del lavoro arrivi in Parlamento sotto forma di disegno di legge e che Monti non ponga la fiducia.
Anna Finocchiaro, Dario Franceschini e Barbara Pollastrini chiedono esplicitamente al Governo di ricercare un consenso più ampio. Per una proposta di riforma del mercato del lavoro, sottolinea Finocchiaro «che contiene molti aspetti positivi».
La presidente del partito, Rosy Bindi è convinta che il Pd possa trovare l'unità, ma avverte il Governo: «Può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze che lo sostengono».

Nel partito sono già al lavoro per mettere a punto possibili modifiche alla riforma, da discutere nelle Aule parlamentari. In primo luogo sulla parte dell'articolo 18 che riguarda i licenziamenti economici (la stessa che non ha convinto neppure la Uil di Angeletti). Sarebbe stato preferibile, dicono dal Pd, che anche in quei casi fosse previsto che l'ultima parola tra il reintegro in azienda o le mensilitá di indennizzo spettasse al giudice.
Tra le richieste anche quella di accorciare i tempi della giustizia sulle cause di lavoro.
I democratici puntano pure su politiche industriali con incentivi alle imprese per creare occupazione e per alleggerire problemi di liquidità. E guardano alla possibilità di allentare il patto di stabilità per gli enti locali, che gestiscono il 70% delle opere pubbliche.
Ne discuterà anche la direzione nazionale del partito convocata per lunedì prossimo.

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