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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2012 alle ore 08:06.

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MILANO - Non lede gli interessi dell'Eni il sequestro in Italia delle azioni un tempo riconducibili alla famiglia Gheddafi e oggi allo Stato libico. Il provvedimento del tribunale dell'Aja coinvolge i titoli di Eni Spa detenuti da Lia (0,572%) e Lafico (0,008%): lo 0,58% del capitale o secondo altre fonti l'1%, una quota comunque minima, ben lontana da quel 10% che ancora nel 2008, dopo il "trattato di amicizia" italo-libica concesso dall'allora premier Silvio Berlusconi a Muammar Gheddafi, era indicato da Tripoli come l'obiettivo strategico di medio periodo.

A causa del sequestro i titoli non potranno essere negoziati, ma questo non ha alcun riflesso sull'Eni. Semmai potrebbe sorgere, esclusivamente per le azioni in questione, un problema di pagamento del dividendo, ma nulla che riguardi le attività operative in Libia dove la compagnia italiana controllata dallo Stato opera da decenni nella produzione di idrocarburi e in particolare nell'estrazione di gas naturale. Diverso sarebbe se il sequestro fosse esteso a conti correnti o a società a capitale misto direttamente impegnate in attività industriali. Ma il problema non si pone. D'altro canto già durante il conflitto, cessato in ottobre con la morte del colonnello Gheddafi, l'Unione europea aveva disposto a un Berlusconi assai riluttante il congelamento degli asset libici senza che ciò avesse avuto conseguenze per l'Eni. Né sono ipotizzabili reazioni dell'attuale governo provvisorio libico, che delle entrate dalla vendita di greggio e metano ha vitale bisogno.

L'Eni è presente nel paese nordafricano dagli anni '50, quando la società (l'allora Agip Spa) era presieduta da Enrico Mattei. Tra le sue prime scoperte, il ritrovamento negli anni '60 del giacimento gigante di Bu' Attifel, il cui greggio è raffinato ancora oggi in Sicilia nell'impianto ex Erg di Priolo, acquistato dalla russa Lukoil. Seguono nel 1976 la scoperta del giacimento offshore di Bouri e all'inizio del decennio successivo la scoperta dei campi di gas che saranno sfruttati molto tempo dopo con il venir meno dell'embargo internazionale contro il regime di Gheddafi.
Oggi i giacimenti a gas di Bahr Essalam e Wafa, di proprietà dell'Eni, sono collegati con l'impianto di trattamento di Mellitah, sulla costa libica, da cui si dirama il Greenstream, il metanodotto che approda a Gela dopo un percorso sottomarino di 520 chilometri e che da qui si innesta nella rete italiana. Oggi la Libia detiene, attraverso la compagnia di Stato Noc, il 50% dell'infrastruttura. L'altro 50% è dell'Eni.

Ed è proprio dal Greenstream che la società di cui è amministratore delegato Paolo Scaroni ha avuto i maggiori problemi durante gli scontri a fuoco tra gli insorti di Bengasi e l'esercito di Gheddafi. Il gasdotto è rimasto chiuso a partire dal 22 febbraio 2011, facendo mancare all'Italia 8 miliardi di metri cubi di gas che servono ad approvvigionare Edison, Gas de France e Sorgenia, e ha ripreso a funzionare nello scorso autunno. La riapertura del Greenstream e gli interventi sui giacimenti Eni rimasti inattivi durante le ostilità sono avvenuti grazie alle buone relazioni tessute dal gruppo con l'esercito ribelle prima ed il governo provvisorio dopo.

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