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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2012 alle ore 20:30.

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Giorgione, Long John o più semplicemente Chinaglia. Se n'è andato d'improvviso, sottratto bruscamente alla vita da un maledetto infarto a 65 anni. Un addio senza mezze misure, come nello stile del personaggio, del calciatore e dell'uomo: trionfi, prodezze seguite da rovinose cadute.
Dal 2006 era inquisito per riciclaggio a Napoli e colpito da un mandato di cattura per estorsione e aggiotaggio per le irregolarità nella scalata alla Lazio.

Sarebbe facile ora scindere il campione dall'affarista immerso in perenni guai, ma siamo convinti che gli faremmo torto. Perché la sua vita è sempre stata fatta di strappi, di estremi, con una concezione della giustizia da terre di conquista: o sei con me o sei contro, o è bianco o è nero. E per lui molto spesso è stato nero. Come le leggende (o mezze verità) cresciute attorno al suo nome associato persino ai perversi miti del crimine oggi tanto celebrati in tv, come la banda della Magliana.
Sono passati quasi quarant'anni dall'epico scudetto conquistato con la Lazio che diede la fama a questo ragazzone italiano di Carrara, ma gallese d'adozione. Solo la mano sapiente di un grande allenatore, Maestrelli, seppe tenere a bada un gruppo di campioni tanto bravi quanto poco affidabili che realizzarono il miracolo nel 1974. Trainer senza regole, condusse all'impresa un gruppo di genietti del calcio, ma privi di qualunque disciplina: da Pulici a Martini, da Wilson a Oddi, da Nanni a Re Cecconi sino a Guarlaschelli e D'Amico.

E tra costoro, leader tra leader in campo e fuori c'era Giorgione venuto dal nord e forgiato nello Swansea City. A vederlo apparire in campo non avresti scommesso un soldo bucato sulle sue capacità di calciatore: magari buono alla lotta, forse al rugby, ma quanto a trattare la palla... Gambe lunghe e nodose che non finivano mai reggevano un tronco robusto, ma già piegato come un albero nodoso in giovane età, con due rami esageratamente lunghi che erano le sue braccia, sempre a ciondoloni.

Come poteva un tipo simile dare del tu al pallone? Bastavano due mosse per capire che quella strana carrozzeria era spinta da un motore di rara potenza. Lanciato era una catapulta, d'aver paura a mettersi di traverso e il tiro secco, violento, veniva spesso da distanze impossibili.
Così Long John, con i suoi scatti imperiosi, ha contribuito alla straordinaria impresa, un'epica che mal celava furibondi scontri nel chiuso degli spogliatoi (allora meno permeabili di oggi) che chissà come diedero impeto a quell'improponibile pattuglia, anziché condurla al disastro come sarebbe stato logico. Poté più la classe che il raziocinio.
La conquista dello scudetto gli portò fama e gli aprì le porte della Nazionale che tuttavia si trascinò in un Mondiale anonimo nel '74, senza poter emulare le leggende dell'Italia-Germania 4 a 3 di quattro anni prima.
Poi vennero gli anni del Cosmos, dopo 209 partite con la maglia biancazzurra e 98 reti segnate. E qui iniziò l'altra stagione, dell'imprenditore che tornò alla Lazio da presidente manager nel 1983,
acclamato come il salvatore della patria.

Da allora a oggi è stato un continuo saliscendi, tra proclami e sventure giudiziarie. E lui sempre uguale al ciclone in campo, anche quando faceva il commentatore in tv. Senza mezze misure, con giudizi taglienti. Se si fosse limitato a quel lavoro, sarebbe stato un asso e comunque fu un anticipatore dei commentatori dei giorni nostri.

E invece proseguì, da uomo con una sola regola e un solo comandamento: il proprio. Dicono le agenzie che hanno dato conto della sua morte che dal 2011 era ambasciatore dei Cosmos, accanto a Pelè e Cantona. Come questo possa conciliarsi con le sue pene giudiziarie e le sue oblique frequentazioni non si sa. Che riposi in pace, accompagnato dalla voce di Rino Gaetano che lo cantò incidendolo nella memoria dei tifosi laziali: "...Chinaglia non può passare al Frosinone".

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