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Questo articolo è stato pubblicato il 03 aprile 2012 alle ore 06:37.

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ROMA
La mano tesa è rivolta al premier, Mario Monti. Ma la proposta di mediazione lanciata ieri da Pier Luigi Bersani, (di modificare cioè assieme al Governo l'articolo 18) è apparsa soprattutto un invito a Pdl e Udc a trovare "una quadra" in Parlamento sulla riforma del lavoro. E chiudere in fretta la partita, con un accordo, per arrivare a un primo via libera delle Camere al Ddl Fornero (è previsto per oggi un ultimo vertice tecnico con Mario Monti) già entro maggio, prima delle elezioni amministrative in calendario il 6 e 7 maggio.
«Io ci credo» ha sottolineato il segretario del Pd. Che dalle colonne di Repubblica si è detto disposto a mettere sul piatto della trattativa anche alcune delle richieste del Pdl sulla flessibilità in entrata «soprattutto – ha spiegato Bersani – se si tratta di alleggerire un certo carico burocratico».
Da Angelino Alfano è arrivata un'apertura alla proposta dei democratici: «Meglio fare la riforma insieme che separati». «Ma l'agenda la detta l'Esecutivo e non la Cgil» ha subito aggiunto il segretario del Pdl che ha poi chiesto "all'alleato di Governo" cosa intenda fare nel caso in cui il sindacato di Corso d'Italia dicesse comunque no alla riforma Fornero. «Siamo un grande partito, più grande di quello di Alfano e ragioniamo con le nostre teste» è stata la risposta di Pier Luigi Bersani, che ha ribadito come «ragionando e approfondendo, un'intesa sia possibile». Del resto, ha ricordato il leader del Pd, «ai sindacati spetta fare il loro mestiere, agli imprenditori il loro. Ma tocca ai partiti dare un'idea di quale sia l'Italia che vogliamo nel futuro».
Le distanze tra Pdl e Pd (e tra quest'ultimo e la Cgil) si notano soprattutto sull'ipotizzato intervento normativo sull'articolo 18. Con i pidiellini che sottolineano che se si modifica la bozza di proposta del Governo (aprendo alla Cgil) si dovrà necessariamente intervenire anche sui contratti d'ingresso che (nel documento di policy del ministro Fornero) sono resi più onerosi (rispetto a quanto previsto dalla legge Biagi). Per il Pd invece la soluzione sull'articolo 18 è il «modello tedesco» che, come ha ribadito anche ieri Pier Luigi Bersani, «affida al giudice la possibilità di scegliere tra reintegro e indennizzo» pure in caso di licenziamento non giustificato da motivazioni economiche. Mentre la posizione di Susanna Camusso è chiara da giorni: il reintegro secco del lavoratore ogni qual volta un licenziamento venga dichiarato illegittimo (a prescindere quindi dalle causali). Ma con una disoccupazione che galoppa anche a febbraio (con picchi drammatici tra i giovani) la pratica dell'articolo 18 «non può rimanere per mesi sul tavolo della discussione» ha evidenziato il presidente dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Che ha aggiunto: «Credo che almeno un ramo del Parlamento debba riuscire ad approvare la riforma del lavoro entro le amministrative del 6 e 7 maggio. Sono convinto che si riuscirà a trovare un accordo e che alla fine potremmo sostenere il progetto che il Governo Monti porterà alle Camere. Questa azione di modernizzazione non può restare a metà strada». E se per Giuliano Cazzola (Pdl) la proposta di mediazione di Pier Luigi Bersani è «interessante» (perché apre a possibili modifiche pure sulla flessibilità in entrata che nell'attuale formulazione rischia solo di ingessare il mercato del lavoro), per Cesare Damiano (Pd) il Parlamento dovrà migliorare le tutele «rendendole universali» e prevedere «una adeguata protezione di fronte al rischio di licenziamento». Ma a fare "pressioni" su Mario Monti è anche l'Idv di Antonio Di Pietro che in un'intervista al Tg3 ha sottolineato che l'accordo sul lavoro «si può trovare in un attimo. Basta non modificare l'articolo 18». Mentre per il leghista Roberto Maroni, la battaglia per la riforma dell'articolo 18 «ha aspetti paradossali. Sembra una situazione kafkiana. Si discute di qualcosa che ancora non c'è». E contro il Governo Monti la Lega scenderà in piazza il 21 aprile, con gazebo in tutta la Padania.

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