Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2012 alle ore 10:22.

My24

Un fiume di denaro che va via via ingrossandosi proprio a partire dal 1994, l'anno successivo al referendum che aveva decretato lo stop ai finanziamenti pubblici ai partiti. Si parte con quasi 47 milioni di rimborsi elettorali alle politiche che incoronano Silvio Berlusconi premier per la prima volta e si approda ai 503 milioni dell'ultima tornata di politiche, quella del 2008.

I volumi sono aumentati di dieci volte e, contemporaneamente si è allargata la forbice fra l'ammontare delle spese elettorali sostenute dai partiti (che sono aumentate ma non allo stesso ritmo dei rimborsi) e quello dei fondi che dovrebbero coprire quelle spese. Alle politiche 2008, ad esempio, mediamente per ogni euro speso, i partiti ne hanno incassati quattro e mezzo. Si va dal Pdl, che avendo speso la cospicua somma di 68 milioni di euro ne ha incassato tre volte di più (oltre 206 milioni) al Pd, che avendo più parsimoniosamente speso per la campagna elettorale 18 milioni di euro e avendone incassati 180, ha messo a frutto una plusvalenza del 900 per cento. Ancora meglio è andata alla Lega che ha incassato oltre 11 volte più di quanto speso.

Il boom dei rimborsi
Ma come hanno fatto i contributi pubblici a moltiplicarsi in misura così eclatante? È stato il Parlamento stesso ad autorizzare gli aumenti. Se, infatti, nel '93 il monte contributi veniva calcolato moltiplicando 1.600 lire per il numero degli abitanti della Repubblica, la legge del '99 ha più che raddoppiato la misura del contributo portandolo a 4mila lire, poi aumentato ancora a 5 euro. A poco è valso limitare il fattore di moltiplicazione ai cittadini iscritti alle liste elettorali per le elezioni della Camera (guarda caso l'elettorato più numeroso): il tesoro da spartire è cresciuto in modo esponenziale. Beffa nella beffa: nel caso di erogazione ritardata delle somme dovute ai partiti, lo Stato paga loro persino gli interessi legali maturati.

Infine, sull'incremento dei rimborsi ha pesato la leggina che ha garantito il pagamento dei contributi anche in caso di interruzione anticipata della legislatura. Eventualità verificatasi nel 2008, con la caduta del governo Prodi che si è tramutata in un vero e proprio affare per i partiti con il raddoppio dei fondi trasferiti nelle casse dei tesorieri. Una norma talmente esosa da essere sopravvissuta per pochissimo tempo: è stata già cassata.

Il «taglietto» recente
Di fronte a queste cifre il «taglio» che la politica si è autoinflitta negli ultimissimi anni appare del tutto ridicolo. Le decurtazioni dei fondi attuate con varie manovre e in più tempi hanno portato negli ultimi quattro anni a un taglio del 30 per cento. Taglio che i partiti si sono affrettati a definire più che sufficiente tanto che i Ddl di riforma presentati alle Camere negli ultimi mesi (dopo il caso Lusi) non contemplano alcuna ulteriore incisione nel tesoretto dei rimborsi. Né la proposta del Pd, né quella dell'Udc, molto simili nel delineare regole stringenti di trasparenza sull'uso dei fondi pubblici non prendono in alcun modo in considerazione l'idea di una cura dimagrante per i finanziamenti statali. E neppure il Pdl, che fra l'altro non versa in condizioni finanziarie molto favorevoli, ha in mente di rinunciare a parte dei rimborsi. Ieri il suo segretario ha annunciato la prossima presentazione di un Ddl che insieme a controlli più rigidi suggerisce un finanziamento privato più robusto, come si suol dire «all'americana». Ma nel partito di Berlusconi in molti hanno da obiettare su questo modello: in un momento di crisi economica e insieme di così grande impopolarità dei partiti, è la critica più ricorrente, quale cittadino offrirà di buon grado e di sua spontanea volontà i suoi soldi alle forze politiche?

I dubbi dei partiti
Sia il Pd che l'Udc, invece, sostengono apertamente che il finanziamento pubblico è necessario e che i tagli recenti sono già stati abbastanza dolorosi. Nella stessa lettera che ieri Pier Luigi Bersani ha inviato a Casini e Alfano non si parla di alcuna riduzione dei rimborsi ma solo di più stringenti controlli sui bilanci e sull'uso dei fondi pubblici con la certificazione obbligatoria dei documenti contabili e le verifiche della Corte dei conti.

Solo il partito di Fini (oltre a Di Pietro che ha presentato un referendum sull'abolizione dei rimborsi) si avventura nella proposta di decurtazione dei contributi dello Stato chiedendone il dimezzamento. Chissà se Fli riuscirà a convincere i suoi alleati. Certo è che in Parlamento la paura di essere spazzati via alle prossime elezioni comincia a superare quella di perdere una parte dei contributi pubblici. Le parole del Pd Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds e difensore a oltranza del finanziamento pubblico dei partiti, ne sono una efficace testimonianza: «L'ho detto a Gianfranco Fini, con Massimo D'Alema ne parlo tutti i giorni, gli faccio una testa così – confida all'Espresso –. Lo capite o no che tra sei mesi l'indignazione dei cittadini metterà i partiti sullo stesso piano. E ci spedirà a casa tutti. Tra sei mesi i partiti non ci saranno più? Finiti!». Altro che rimborsi elettorali.

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi