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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2012 alle ore 10:09.

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C'è un'istantanea dei primi mesi del 1997 che racconta da sola la questione settentrionale. Umberto Bossi aizza al secessionismo, gli imprenditori di Treviso consegnano le chiavi delle imprese a uno sgomento Romano Prodi, i loro omologhi di Conegliano e Vittorio Veneto organizzano pullman alla volta di Klagenfurt con l'obiettivo di trasferire lì le loro imprese: «Io sono un combattente, non un deficiente» urlava al megafono il leader dei Liberi imprenditori federalisti europei, Fabio Padovan, mentre otto pullman supercomfort strapieni del popolo delle partite Iva perforava una nebbia fitta come anice che avvolgeva l'autostrada per Villach.
Al Nord si erano stufati del caporettiano «tira e tasi». Imprenditori e operai sulla stessa barricata. Che mandano in frantumi il conflitto tra capitale e lavoro, il totem dei comunisti. «È il malessere del benessere» ringhiava l'allora ministra della Salute Livia Turco. In pochi capivano che sotto la crosta xenofoba e secessionista ben rappresentata dal sindaco-sceriffo di Treviso Giancarlo Gentilini, c'era la paura di una modernizzazione impossibile e la consapevolezza che i paesi oltreconfine - Francia, Germania, Austria - viaggiavano a una velocità ben superiore alla nostra. Ci sono voluti quindici anni prima che gli italiani si rendessero conto di quanto fossero motivate quelle paure, seppure mostrate in modo contradditorio, debordante e a tratti volgare. Allora il divario era simboleggiato dal valico di Mestre, una strozzatura fisica ma anche culturale tra il lombardo-veneto e l'Europa. Cristo si era fermato a Eboli e poi a Mestre. Un cortocircuito che pose l'accento sulle due questioni simmetriche che flagellano ancora il Paese: la questione settentrionale e quella meridionale.

L'intuizione di Bossi era stata felice: inventare il Nord come entità unitaria e chiamarlo Padania, unificare tutte le leghe regionalista fino a quel momento gelosissime della loro autonomia. La Liga veneta nasce molti anni prima di quella lombarda, ma è Bossi a ricondurre i movimenti indipendentisti a fattor comune. Li egemonizza e li sottomette, moltiplicandone così a dismisura la forza d'urto. Gli epicentri della Lega bossiana non sono le grandi aree metropolitane del Nord, né Torino né Milano ma i piccoli centri della fascia Pedemontana che tagliano trasversalmente il Nord da Cuneo a Pordenone. Un'area bianca, fino a quando la Balena democristiana intercetta e filtra le istanze politiche del profondo Nord. Moderata, cattolica e laburista, nel senso che ruota attorno alla triade famiglia, capitale e lavoro, la vera religione del Settentrione. Tanta famiglia e lavoro, per la verità, poco capitale. I leghisti di solito vengono dal basso, sono sporchi del grasso di officina. Sono i capitalisti senza capitale, quelli che hanno studiato poco e hanno scommesso su se stessi. L'impresa come veicolo di riscatto sociale. Bossi gli costruisce una nuova patria, la Padania, li seduce con un obiettivo secessionista e soprattutto elabora l'idealtipo del nemico foriero di ogni sventura: Roma ladrona. Una capitale infetta che si trascina la zavorra di un Sud indolente e contaminato dalle mafie. Il Nord, dunque, come terra promessa, quasi l'inveramento della palingenesi marxiana - Bossi e Maroni da giovani erano comunisti - nello stato federalista ricco, efficiente, virtuoso e retto da uomini probi. «Un modello che rammenta nel modo di stare nella società più il vecchio Pci che il Pd» scrive Ilvo Diamanti nella prefazione del libro di Francesco Jori «Dalla Liga alla Lega». E aggiunge: «La Lega d'ordine ispirata da Gentilini e Tosi, offre sicurezza locale contro l'incertezza sociale prodotta dalla globalizzazione. Il cui volto si riflette negli immigrati. È la Lega degli uomini spaventati che raccoglie e amplifica le paure».

Il Nord produttivo e con basso tasso di disoccupazione affida a Bossi il taumaturgo la soluzione di una serie di fratture che lo affliggono: quella con il Sud, con i capoluoghi di regione (le nuove capitali) con lo Stato e l'apparato pubblico, giudicati inefficienti e vessatori. È il Nord che si sente solo contro tutti. «La secessione leggera», raccontata dal giornalista Paolo Rumiz in un libro della seconda metà degli anni '90, si è compiuta in silenzio, carsicamente. Non quella istituzionale, ma la separazione progressiva e lacerante di due parti dello stesso Paese che non si riconoscono più. Alla vigilia delle celebrazioni dei 150 anni dell'unità d'Italia, una ricerca sociologica ha messo in luce che il 61% degli italiani del Nord ritengono che il Sud sia un peso per il Paese, mentre il 45% sostiene che il Nord e il Sud siano troppo diversi, meglio dividersi. I pozzi, ormai, sono stati avvelenati. Bossi sbraita da vent'anni con lo spadone sguainato ma l'unico tozzo di riforma in senso vagamente federale, la riscrittura del titolo V della Costituzione, è stata abborracciata da un paio di deputati del Pd nel 2001, sul finire della XIII legislatura. Di certo c'è che il federalismo è sempre più lontano, il Nord è precipitato in una crisi gravissima, il senatùr, vecchio e malato, si è dimesso da segretario e la Lega, sotto il torchio di tre Procure, non si sente per niente bene.

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