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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2012 alle ore 15:30.

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«Possono andare a bagno quando vogliono» assicura il signor Seav, direttore di una fabbrica d'abbigliamento nel polo industriale a sud di Phnom Penh, in Cambogia. «Ma prima dobbiamo perquisirli». Secondo lui è perché hanno riempito i muri di graffiti. Più plausibile la spiegazione di un intellettuale italiano che vive in Cambogia da trent'anni. «Vogliono controllare che non abbiano la Ya Ba». Quelle pillole di metanfetamine stanno facendo impazzire milioni di persone in sud est asiatico, che le usano per lavorare di più.

Nelle fabbriche come questa, l'orario di lavoro oscilla tra le 9 e le 10 ore il giorno (con un'ora e mezza di pausa pranzo) sei giorni la settimana. Il salario va da 61 a 75 dollari mensili. Ma, come pubblicizza la scritta sul cancello, è previsto un bonus di 15 dollari se si fa un'ora di straordinario il giorno.

Alle ore di lavoro, poi, bisogna aggiungere quelle dei trasferimenti: una o due, secondo la distanza, per tratta. Il servizio è assicurato da camion (e qualche furgoncino) che trasportano sino a 250 persone in piedi sul pianale. L'abbonamento mensile costa da 12 a 15 dollari, ma la fabbrica corrisponde un ticket di 9 dollari. Gli operai, anzi le operaie, dato che la maggior parte della forza lavoro è femminile, usufruiscono anche di un ticket per il pranzo: 2000 riel, 50 centesimi di dollaro.

Di fabbriche come quella diretta dal signor Seav ce ne sono centinaia, impiegano circa 450mila persone, producono soprattutto abbigliamento e calzature e sono tutte uguali, a parte le dimensioni: capannoni di cemento coperti da tetti di lamiera blu.

Attorno alle fabbriche sono sorti villaggi da Far West: una strada sterrata delimitata da piccole botteghe, mercatini, locande, case a due o tre piani. Sono abitazioni dormitorio che costano 60 dollari il mese d'affitto, diviso tra 10, 12 persone.

Uno scenario da "cuore di tenebra". Ma bisogna tener conto che la Cambogia è stata un cuore di tenebra vero, dove gli ultimi combattimenti si sono spenti poco più di dieci anni fa. In quelle fabbriche - che in Occidente definiamo "sweatshop", fabbriche del sudore - le condizioni di lavoro sono "buone" secondo gli standard locali: all'interno fa relativamente fresco grazie ai ventilatori sul soffitto, è diffusa musica popolare, le condizioni igieniche sono discrete. Non c'è lavoro minorile, proibito dalla legge stilata negli anni '90 sotto l'amministrazione Onu. Lo stipendio, poi, va raffrontato al costo della vita: una zuppa ai banchetti fuori della fabbrica costa circa 25 centesimi. Inoltre, come spiega l'italo-cambogiano, per la maggior parte questo è un lavoro supplementare che integra il reddito prodotto dalla famiglia nei campi. Ecco perché c'è un fortissimo turnover, specie nei periodi di raccolta del riso.

I problemi maggiori sono altri. Per quanto il diritto di sciopero sia garantito, con un paradosso tutto asiatico, lo sciopero è represso con violenza, com'è accaduto nel 2010 in una fabbrica che produce per marchi famosi. In termini d'economia nazionale, infine, tutto questo lavoro frutta ben poco: le fabbriche sono cinesi, taiwanesi, malaysiane o coreane, operano in regime di detassazione, importano la materia prima dal loro paese. A fronte di 4.24 miliardi di dollari d'esportazioni nel settore abbigliamento e calzature, la Cambogia ha importato 2.6 miliardi di dollari di materiali.

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