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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2012 alle ore 18:51.

Piermario Morosini non ce l'ha fatta. Si ferma il calcio italiano, sgomento e impotente. La notizia fa il giro del mondo in una manciata di minuti. I giornali stranieri, nelle loro versioni on line, ribattono immediatamente la notizia. La domanda rimbalza sorda in ogni angolo del globo: perché? Da Marca a L'Equipe, dal Sun al Daily Mail. Perché il cuore di un giovane di 25 anni si ferma di colpo durante una partita di calcio? Perché non si possono prevedere queste tragedie? Aneurisma? Arresto cardiaco? La morte, si sa, non guarda in faccia a nessuno ma allora perché restiamo così sconvolti davanti a quelle immagini che tramite tv, internet e con l'effetto amplificante dei social network ci mostrano la tragedia in tempo reale, in tutta la sua crudezza? È l'ineffabilità che ci annienta. Capaci di raffrontarci con una vita che si spezza solo col tempo necessario per prepararci all'evento. Non così. Non di fronte a un ragazzone, un atleta, uno sportivo che in quanto tale dovrebbe essere l'icona stessa della salute, della forza, dell'energia. Immagini e messaggi dei campioni e dei compagni di squadra si rincorrono su Facebook e Twitter. Il pallone si ferma, non solo in segno di lutto e rispetto. È tempo di domande ma soprattutto di risposte. È tempo di capire. Approfondire. Cambiare, forse. Troppe casualità, troppe analogie seppur con esiti, grazie al cielo differenti. Inutili i processi mediatici, anche di fronte ad un auto dei vigili urbani parcheggiata nel posto sbagliato, davanti a un'ambulanza costretta a ritardare l'intervento. Vigilare però si può e si deve. Senza mollare la presa quando l'eco si spegne. Non prima di aver ottenuto tutte le risposte che dobbiamo pretendere.

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