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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2012 alle ore 08:10.

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Gli analisti ritengono che la nuova grave caduta delle borse europee, più grave in Spagna e in Italia, sia da attribuire al rallentamento dell'economia cinese. Pur continuando a crescere a tassi irraggiungibili per i Paesi sviluppati, la "fabbrica del mondo" dopo aver perso la doppia cifra di crescita è scesa sotto il 9% annuo. È possibile che questa sia la causa principale dell'ennesimo venerdì nero, ma ciò non vuol dire che i mercati finanziari si regolino sulla bussola dell'economia reale; ad essi interessano primariamente gli inevitabili effetti finanziari, che cercano di prevedere e anticipare nelle quotazioni: in questo caso scontano un'ulteriore flessione dell'attività in Europa, un conseguente appesantimento delle finanze pubbliche locali, quindi un minor valore dei titoli di Stato di cui si sono imbottite le banche europee, che pertanto sono le più bersagliate dalle vendite.
Sono fenomeni che non possono essere ignorati e che vanno affrontati con tutte le risorse a disposizione delle istituzioni demandate, ma il problema che va risolto, in Europa e soprattutto in Italia, è diverso e più ampio: è il ruolo di queste economie nella divisione internazionale del lavoro e della ricchezza che sta emergendo. Tutte le forze positive della crescita, a partire dalle nuove tecnologie, favoriscono una distribuzione sempre più aperta della creazione di valore nel mondo: masse di nuovi lavoratori offrono i loro prodotti, costruiti sugli stessi disegni e con gli stessi processi con cui noi costruiamo i nostri. Queste stesse masse originano forti correnti di domanda nuova, da un lato offrendo accresciute opportunità di sbocco, dall'altro facendo lievitare i prezzi delle risorse primarie.
Nessuna crisi sembra in grado di congelare la redistribuzione di ricchezza che ne consegue, non si può resisterle, bisogna cavalcarla. Come? Offrendo produzioni sempre rinnovate, specializzate, basate su un saper fare che va coltivato investendo in ricerca, impianti e persone. Un sistema Italia che secondo il presidente Monti è troppo frammentato va messo in grado di produrre organizzazioni più robuste e ricche di competenze, capaci di conquistare mercati che consentano di difendere un differenziale salariale che va meritato. È un'impresa difficile ma possibile, se si fanno convergere competenze scientifiche e organizzative, intensità di capitale e genialità imprenditoriale. Nessuna rigidità normativa può essere d'aiuto in questo compito che chiama tutti a cooperare; i posti di lavoro non competitivi, anche se congelati dalle norme, affondano con tutta l'impresa, come drammaticamente ci hanno mostrato pochi giorni fa i dati sui fallimenti, incredibilmente numerosi in Lombardia. Cooperare tutti per salvare un benessere che rimane tale solo se è socialmente condiviso significa però che non ci possono essere aree riservate e sottratte dall'impegno.
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Dove non si corrono rischi di reddito né di patrimonio e si è addirittura completamente sottratti non solo a qualunque pressione competitiva ma financo a qualunque verifica del regolare svolgimento dei doveri assunti. È sempre più intollerabile assistere alla continua aggiunta di pesi – imposte, accise, adempimenti – e riduzione di trasferimenti verso la parte del Paese che produce e compete, mentre nessun sacrificio tocca a chi non compete, non è misurato nel suo sforzo, non è controllato negli adempimenti. Qui sì che occorre una svolta decisa, dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni alla riduzione della sfera pubblica nel senso più ampio. Se lo si facesse, si scoprirebbe che i mercati finanziari sanno tradurre in valore le aspettative, come accadde sul finire dello scorso anno.
Gian Maria Gros-Pietro

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