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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2012 alle ore 06:43.

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Si può pensare quello che si vuole della "bozza Violante", lo schema di riforma elettorale su cui il tripartito Alfano-Bersani-Casini ha trovato nei giorni scorsi un'intesa di principio. Di certo, anche i critici più accesi di quel canovaccio possono riconoscere che l'ex presidente della Camera ha ragione quando afferma che i tempi sono ormai molto stretti. La legislatura, ricorda Violante, finirà ai primi di febbraio 2013. «Le Camere andranno sciolte al massimo entro il 15 del mese» per poter votare fra la fine di marzo e l'inizio di aprile: non si può dimenticare infatti che il nuovo Parlamento dovrà eleggere il presidente della Repubblica e che il mandato di Napolitano scade il 15 maggio.
Come si vede, la legislatura è quasi agli sgoccioli. Il che significa che il pacchetto delle riforme e la legge elettorale dovranno essere varate dalle Camere entro e non oltre la fine di novembre. C'è qualcuno che crede che la strada sia spianata e che si corra veloci verso il traguardo? Non proprio. Lo scetticismo sovrasta di gran lunga l'ottimismo. Tanto è vero che il calendario messo a punto dallo stesso Violante assomiglia a un nodo scorsoio. Per avere speranze di concludere il lavoro in tempo, il Senato dovrebbe licenziare la riforma costituzionale in prima lettura entro la fine di maggio. Ai primi di agosto Montecitorio dovrà fare lo stesso. Entro settembre di nuovo il Senato in seconda lettura ed entro novembre la Camera per il "sì" definitivo. In coincidenza con le ultime due letture le Camere affronterebbero, ma in tempi rapidi, la legge elettorale. Il che presuppone un accordo di ferro fra le forze politiche.
Questi sono i passaggi, diciamo così, tecnici. Che richiedono intese politiche molto convinte. Occorre che i tre partiti (Pdl, Pd, terzo polo) marcino uniti e quasi senza ripensamenti. È sufficiente il ritardo di un mese e tutta questa complessa architettura procedurale è destinata a saltare. Se si pensa che a tutt'oggi il disegno di legge costituzionale non è stato ancora presentato in commissione al Senato, si possono capire le ragioni del disincanto.
Tutto lascia pensare che i partiti hanno, sì, raggiunto un accordo di principio, ma senza molta sostanza politica. L'impressione, in altri termini, è che manchi la volontà d'impegnarsi realmente per ottenere l'accoppiata: riforma della Costituzione e modifiche alla legge elettorale. Un menù un po' troppo ricco per una legislatura che si trascina verso la conclusione senza che nei palazzi romani si avverta in alcun modo un'atmosfera "costituente". E infatti il capogruppo del Pd, Dario Franceschini, ha appena avanzato una proposta suggestiva, ma la cui praticabilità è vicina allo zero: affidare al Senato la missione di mettere a punto la riforma, mentre alla Camera sarebbe data, in via transitoria, la normale attività legislativa.
Sembra di capire che gli stessi esponenti politici si rendono conto che il progetto riformatore è prossimo al fallimento (compresa la legge elettorale). Ed è cominciato il tentativo di scaricare sugli avversari la responsabilità della paralisi. Franceschini dice che nel centrodestra troppa gente non vuole le riforme, ma se fosse così perché gli stessi dovrebbero accettare un'assemblea costituente? Anche D'Alema sostiene che «non tutti sono consapevoli dell'urgenza delle riforme». Nel Pdl invece è Mariastella Gelmini ad adombrare che è il Pd, sotto sotto, a desiderare la sopravvivenza dell'attuale legge elettorale maggioritaria. Tutto questo quando manca un mese e mezzo alla data della prima approvazione. A dir poco, siamo in alto mare.
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