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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2012 alle ore 06:41.

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L'aveva scandito il 15 aprile 2008, insediandosi a capo della Procura di Reggio Calabria. L'ha ripetuto un mese fa nella Capitale: «Il ruolo del pubblico ministero è fondamentale per il servizio che rende ai cittadini, specie ai più deboli, in risposta alla loro domanda di giustizia». Per far bene a Reggio, ha riorganizzato e orientato l'ufficio su direttrici quasi obbligate «perché lì il contrasto alla 'ndrangheta viene prima di tutto». E Roma? «Roma è una realtà molto più complessa, strategia e organizzazione non potranno che essere diverse. L'obiettivo rimane quello di rendere al meglio un servizio». Giuseppe Pignatone, 63 anni, è sbarcato a piazzale Clodio il 19 marzo, forte dei suoi principi e del voto unanime del Csm. Questa è la sua prima intervista da Procuratore capo di Roma.
Finora si è limitato a scarni comunicati ufficiali, ma l'uscita del libro Il contagio, che porta anche la sua firma, dischiude una parentesi di riflessione "pubblica", una parentesi che si richiuderà molto presto, com'è nello stile misurato del magistrato siciliano, mai venuto meno in quasi 40 anni di professione: nemmeno nei momenti di più grave tensione a Palermo o a Reggio; nemmeno dopo le minacce della 'ndrangheta, e neanche quando è stato oggetto – insieme al suo aggiunto, Michele Prestipino – di attacchi violenti e ripetuti rilanciati da una parte dei media calabresi.
Partiamo da un'espressione tratta dal libro: il marchingegno. Pensa di essere sbarcato nel cuore del marchingegno?
Si riferisce alle parole del collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, molto vicino a Provenzano. In una sintesi folgorante, Giuffrè ebbe a dire in un'occasione che «i poteri imprenditoriale, economico, politico... devono essere tutti collegati tra loro. Perché altrimenti il marchingegno non funziona». E intendendo, ovviamente, che mettere le mani su quel "marchingegno" è vitale per ogni tipo di mafia.
E Roma è il cuore di questo marchingegno, mafia compresa?
Se Roma è anche questo o no, dovrà emergere da indagini e da solide prove. Il problema non è immaginarlo o teorizzarlo, i processi non si fanno con le chiacchiere.
Comunque lei lavorerà in questa direzione.
Anche. Ma le inchieste vanno sempre condotte a 360°, qui come a Palermo o a Reggio. Senza tesi precostituite – errore gravissimo da parte di chi indaga – ma senza sconti per nessuno, errore altrettanto grave. Anzi imperdonabile, come dimostrano recenti provvedimenti penali e disciplinari assunti verso professionisti, politici, amministratori e anche magistrati calabresi.
Come pensa di operare nella Capitale?
Roma è una realtà molto complessa, non pretendo di avere un quadro o ricette definitivi; matureranno, spero entro breve, con l'esperienza e la riflessione in comune con i colleghi. Il lavoro non può concentrarsi sulla sola criminalità mafiosa, ma deve fronteggiare temi altrettanto importanti, come la corruzione, la criminalità economica e fiscale, la sicurezza pubblica, il terrorismo e la violenza di matrice politica. Condividere i risultati del lavoro di ognuno può mettere l'ufficio in grado di cogliere ogni segnale, ogni nesso che emerga dalle indagini ordinarie e di criminalità organizzata.
L'ufficio resterà suddiviso in 15 dipartimenti com'è ora?
Verificheremo in concreto la funzionalità dell'assetto attuale. Comunque qui l'ordinario, ciò che non è immediatamente o direttamente collegabile alla mafia, è un campo vastissimo, al quale vanno dedicati pensiero, tempo, risorse. E ho già constatato che sui numeri proprio non ci siamo: troppe scoperture sia di colleghi sia di personale amministrativo.
Le inchieste su politici calabresi e sequestri come il Cafè de Paris di Via Veneto, hanno dimostrato interessi forti delle cosche qui a Roma.
Innegabile, lo hanno dimostrato anche le indagini di Reggio Calabria e ne tratta diffusamente anche il libro. Per questo ho preferito assumere in prima persona la responsabilità della Direzione antimafia. Daremo nuovo impulso all'aggressione ai patrimoni illeciti reinvestiti a Roma e in altre zone del Lazio.
Lei parla di carenze, ma ha 9 aggiunti e 90 sostituti. Non siete pochi...
Sulla carta è così, ma i sostituti non arrivano a 80. E non è proprio il caso di sguarnire anche uno solo dei fronti cui accennavo prima. La Procura di Roma è ricca di magistrati di grande valore. Io spero di contribuire con la mia specifica esperienza professionale e con il mio impegno, nel segno dell'assoluta indipendenza dell'ufficio, della trasparenza e del rigoroso rispetto delle regole. Ma ripeto: è fondamentale la volontà di mettere in comune gli sforzi e i risultati man mano acquisiti, da porre alla base delle inchieste successive.
Dal cono d'ombra, dal silenzio dei media nazionali, più volte denunciato dalla Calabria, al vocìo incessante e i riflettori sempre accesi di Roma.
A Reggio era necessario denunziare la micidiale assenza informativa e abbiamo tentato di superarla perché quel silenzio è funzionale allo sviluppo della 'ndrangheta, rende più difficile acquisire consapevolezza della sua diffusione e pericolosità. Credo che, a Roma, il nostro compito sia quello di dare una informazione corretta nei limiti previsti dalle norme.
ext.lmancini@ilsole24ore.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA
IL LIBRO
p «Il contagio. Come la 'ndrangheta ha infettato l'Italia» (Laterza) è il libro da oggi in libreria in cui Giuseppe Pignatone, con il collega Michele Prestipino, rievoca i 4 anni alla guida della Procura di Reggio Calabria

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