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Questo articolo è stato pubblicato il 22 aprile 2012 alle ore 18:08.

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Poco incline all'autocritica, nelle ultime settimane Nicolas Sarkozy ha ripetutamente riconosciuto, incalzato dalle domande dei giornalisti e messo all'angolo da sondaggi impietosi, di aver commesso degli errori «soprattutto di forma e soprattutto all'inizio del suo mandato», assicurando che non si ripeteranno.

Già, perché se la maggioranza dei francesi ha probabilmente dimenticato molte delle misure varate in questi cinque anni, non ha scordato alcune battute e alcune immagini del debutto di Sarkozy. Grazie anche alla stampa di sinistra, che ha provveduto a rinfrescarne la memoria.

Non ha scordato, e non ha perdonato, quello «sparisci, povero coglione», sibilato il 23 febbraio del 2008, durante la rituale visita al salone dell'agricoltura, a una persona che si è rifiutata di stringergli la mano.

Non ha scordato, e non ha perdonato, la pur breve vacanza sullo yacht dell'amico Vincent Bolloré all'indomani della vittoria. Quando pochi giorni prima aveva detto che in caso di elezione avrebbe preso una pausa di riflessione, «senza dubbio in un monastero».

Non ha scordato, e non ha perdonato, i festeggiamenti, la sera del 6 maggio 2007, al Fouquet's - famoso ristorante degli Champs Elysées - insieme ad alcuni rappresentanti del gotha economico e finanziario parigino.

Da allora l'etichetta di uomo arrogante e di «presidente dei ricchi» non è più riuscito a togliersela di dosso. Certo i precedenti non aiutavano. Nicolas Paul Stéphane Sarkozy de Nagy-Bocsa, 57 anni, figlio di un vulcanico pittore e pubblicitario ungherese, prima di arrivare all'Eliseo è infatti stato avvocato d'affari e, una volta entrato in politica, sindaco per 23 anni di Neuilly, l'elegante sobborgo di Parigi dove a quel tempo abitavano Bouygues, Arnault, Pinault, Decaux, il barone Bich eccetera eccetera. Come non hanno aiutato il matrimonio con l'ex top model Carla Bruni e una certa sguaiatezza nell'esibizione della vita privata.

Peccato che nel giudizio di molti francesi rischino di prevalere questi aspetti. Perché quello della presidenza Sarkozy non è un cattivo bilancio, nonostante la perdita della mitica tripla A.

Dalla riforma delle pensioni al servizio minimo nei servizi pubblici, dall'autonomia delle università alla sburocratizzazione dell'attività imprenditoriale, dalla chiusura dei "tribunalini" alla defiscalizzazione delle 35 ore, dal credito d'imposta sulla ricerca alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, Sarkozy ha fatto molto. E spesso bene.

Alle prese con «la peggior crisi dal 1929», è riuscito a limitare i danni (la disoccupazione, pur arrivata a sfiorare il 10%, è salita del 16,5% rispetto al 39,9% della media dei 12 principali Paesi europei e il potere d'acquisto è cresciuto dell'1,3% in media annua, a fronte di un calo dello 0,5%) e persino ad avere il coraggio di contrattaccare (con i 35 miliardi del "grande prestito" per finanziare l'innovazione, grazie ai quali gli investimenti sono aumentati del 7,3%, più della media europea).

Quanto alla politica estera, l'intervento in Libia è stato un indubbio successo.

Se non dovesse essere rieletto, più che rammaricarsi per quello che ha fatto da presidente, Sarkozy dovrà insomma imputare la sconfitta agli eccessi dell'uomo. E ad alcuni errori del candidato. Dal pasticcio sul sostegno elettorale della cancelliera Angela Merkel a una certa confusione nella campagna elettorale, vittima nel doppio e contraddittorio tentativo di blandire gli elettori della frontista Marine Le Pen e quelli del centrista François Bayrou.

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