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Questo articolo è stato pubblicato il 24 aprile 2012 alle ore 06:41.

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L'ultima guerra del petrolio si combatte lungo una controversa linea di confine, una frontiera che si snoda per quasi mille chilometri in una delle regioni più povere del mondo. Per ora il conflitto è limitato ma, considerando i precedenti, potrebbe degenerare in uno scontro aperto dalle conseguenze devastanti. Le cicatrici della guerra tra nord musulmano e sud cristiano, terminata solo nel 2005 dopo 22 anni di combattimenti e due milioni di vittime, non si sono mai rimarginate.
Finora gli appelli alla calma lanciati dalla comunità internazionale - ieri per la seconda volta il presidente americano Barack Obama ha sollecitato la ripresa dei negoziati - sono rimasti inascoltati. I due belligeranti - il Sudan e il neo Nato Sudan del Sud - si rinfacciano accuse e usano toni bellicosi. Dopo aver riconquistato il campo petrolifero di Heglig, che secondo un organismo internazionale farebbe parte del Sudan ma è stato occupato dalle forze del sud lo scorso 10 aprile, le truppe di Khartoum ieri hanno bombardato la capitale dello Stato petrolifero di Unity, in territorio sudsudanese, uccidendo alcuni civili. «Una dichiarazione di guerra», ha protestato il Sudan del Sud, che ha precisato di aver ritirato le truppe di Heglig, e non di esser stata respinta come invece afferma Khartoum. La quale dice di aver ucciso 1.200 soldati del Sud.
Si sta avverando quanto si temeva lo scorso gennaio, quando milioni di sudanesi hanno votato il referendum che ha sancito la secessione del sud. In luglio il Paese più esteso del continente si è così diviso in due: il Sudan del Sud, ricco di vegetazione e di petrolio, ma senza sbocchi al mare. E il Sudan, desertico ma con una lunga costa e un grande porto. Il primo a maggioranza cristiana e animista con capitale Juba. Il secondo di etnia araba e musulmano, guidato da Kahrtoum. L'altro referendum per definire lo status della ricca e contesa regione di Abyei, ancora in mano a Khartoum, non si è invece mai svolto.
Si sperava il petrolio potesse unire i due Paesi, come era già accaduto. Invece li ha divisi. Perché il greggio fu decisivo a riportare i due belligeranti al tavolo negoziale. Regolando la ripartizione dei ricavi energetici (50% ciascuno), l'accordo di pace del 2005 apriva la via allo sfruttamento delle risorse petrolifere, l'80% delle quali nel Sud. Anno dopo anno, con l'arrivo imponente delle compagnie cinesi, il Sudan ha assistito a una crescita vigorosa della produzione petrolifera, che nel 2010 ha sfiorato 500mila barili al giorno, quasi due terzi esportati in Cina. Con la secessione Juba ha ereditato il petrolio, che rappresenta il 98% delle sue entrate, ma non le infrastrutture. Juba non può fare a meno degli oleodotti di Khartoum per trasportarlo. Né dei suoi porti per esportarlo. L'uno ha bisogno dell'altro. Ora la produzione del Sud è stata fermata. Juba ha precisato di non voler più esportare via Khartoum. Una situazione in cui tutti perdono.
A riaccendere le tensioni, in gennaio, è stato il contenzioso sulle tasse di transito del greggio. Juba ha accusato Khartoum di aver sottratto il suo petrolio per un valore di 815 milioni di dollari. Khartoum ha ribattuto di averlo preso come compensazione per i mancati pagamenti. L'accordo in questione non è mai stato preciso. L'Unione africana sta cercando una mediazione. Ora il governo di Juba ha annunciato di aver siglato accordi preliminari per valutare la costruzione di due oleodotti: uno attraverso l'Etiopia e l'altro via Kenya. Ma sono progetti costosi, che richiedono anni. Così a lungo, senza petrolio, il Sudan del Sud non può restare.
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