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Questo articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2012 alle ore 07:58.

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L'annuale "incontro di primavera" dell'Fmi della settimana scorsa a Washington ha confermato che l'America condivide le preoccupazioni dei mercati finanziari nei confronti dell'Europa. E l'ha ben riassunto l'editoriale del New York Times dedicato al rischio rappresentato per l'economia globale dalla nostra «austerità distruttiva».

Davvero l'Europa dovrebbe prendere esempio dagli Stati Uniti ed essere più keynesiana, per uscire dalla crisi? Davvero dovremmo cercare di convincere la Germania a essere più keynesiana, facendo subito più debito pubblico e rinviando a tempi migliori il risanamento dei bilanci pubblici?

Per uscire dai guai in cui ci troviamo, servirebbe una strategia politica comune (l'ha ricordato ieri all'Europarlamento anche il presidente della Bce, Mario Draghi), e quindi anzitutto una diagnosi condivisa dei problemi da risolvere. E invece si ha l'impressione che questa diagnosi comune ancora manchi. Proviamo allora a ricordare quali sono i problemi maggiori, con particolare riferimento all'Italia, e quindi alle necessarie priorità del nostro Governo.

Anzitutto, ricordiamo che non abbiamo solo (dal terzo trimestre 2011!) una "recessione da austerità"; e che quella iniziata ancor prima non era solo una "crisi finanziaria" dovuta alla speculazione; perché da 15 anni abbiamo anche un problema di "mancata crescita".

Oggi, abbiamo assieme tutte e tre le cose - siamo in recessione; la crisi finanziaria non è finita; e manca sempre la crescita - e ciò spiega la gravità dell'odierna sofferenza economica e ancor più sociale. Ma come usciamo da questi guai? Una vecchia regola degli economisti (il primo a formalizzarla fu un economista di grande qualità e buon senso: Jan Tinbergen) dice che quando hai tre problemi, ti servono tre strumenti. E non a caso è su queste tre politiche che più ha insistito la Banca d'Italia nella sua Audizione alla Camera il 23 aprile scorso. Continuando una linea di analisi e di proposta che già ha caratterizzato la Banca d'Italia degli anni scorsi, Salvatore Rossi ha ricordato al Parlamento italiano che servono tre cose: 1) a livello europeo e globale, rafforzare gli strumenti per la stabilità finanziaria; 2) per l'Italia, il risanamento dei conti pubblici; 3) le riforme a sostegno della crescita.

La recessione che - in assenza di nuovi shock - è prevista terminare nei prossimi due trimestri, è attribuita alla contrazione della domanda aggregata dovuta al consolidamento della finanza pubblica e alla riduzione del debito privato (deleveraging), che restano comunque necessari e prevedibili nei prossimi anni, non solo in Italia. È interessante notare che la Banca d'Italia è quasi del tutto positiva su quanto ha finora fatto il Governo Monti. Basti leggere questo giudizio nelle ultime due righe delle 18 pagine lette da Salvatore Rossi: «Passi importanti sono stati compiuti, alcuni più decisi, altri più esitanti». Ma è anche chiaro perché si condivida il giudizio che già il Governo ha espresso nel Def (Documento di economia e finanza) 2012: «Molto resta da fare». E questo "molto" si riferisce ovviamente alla crescita.

Due annotazioni in proposito. Una di metodo e una di contenuto. È credibile l'accusa dei keynesiani del Nyt che la nostra crescita è uccisa dalla "austerità distruttiva"? Oppure, aveva ragione Schumpeter, 70 anni fa, quando sosteneva che la crescita stessa sia soprattutto "distruzione creativa"?

Ricordo in proposito, un bell'editoriale appunto intitolato "la distruzione creativa", che Tommaso Padoa Schioppa aveva pubblicato sul Corriere della Sera, il 13 dicembre 2005. A dire il vero, Padoa Schioppa non citava Schumpeter, ma Goethe e la Bibbia, parlando bene dei successi di una buona "economia sociale di mercato" (i buoni esempi citati erano quelli di Germania e Svezia), dove la tutela del lavoro si ottiene favorendo lo spostamento dei lavoratori verso le nuove produzioni, cui provvedono imprese libere di (e motivate a) cambiare e così crescere.

Se siamo d'accordo che è questa la definizione di cosa sia la crescita, allora evitiamo di identificarla con il solo sostegno keynesiano della domanda (basterebbe scavare un po' di buche, finanziando il tutto con un po' di debito pubblico che lasciamo da pagare ai nostri figli). Ma ragioniamo soprattutto di concorrenza (liberalizzazioni e privatizzazioni), di legalità ed efficienza amministrativa, di onestà e di pressione fiscale, di stimoli alla ricerca e all'innovazione. Sono queste le riforme che contano e le sole che eventualmente meritano sacrifici. Quelli che stiamo facendo in questi mesi, hanno solo scongiurato il peggio, cioè evitato uno scenario ancora più recessivo. Ma è ben difficile provare entusiasmo per il peggio evitato!

Per uscire dalla paura del passato, serve il coraggio del costruire un futuro migliore: la sola priorità per cui merita fare sacrifici.

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