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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2012 alle ore 12:43.

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ZABADANI - Resort di villeggiatura per la borghesia damascena e i turisti arabi del Golfo, Zabadani è stato il teatro di durissime battaglie tra l'esercito di Bashar Assad e i ribelli del Free Syrian Army: a ridosso delle colline del Libano e della valle della Bekaa, via di rifornimento ma anche di fuga della guerriglia, questa è una località strategica per il controllo della frontiera e dell'area intorno alla capitale.

È qui che sono arrivati gli osservatori delle Nazioni Unite, un manipolo di militari con un paio di jeep bianche e le insegne dell'Onu inseguite da un battaglione agguerrito di telecamere e reporter.

I caschi blu, disarmati secondo la risoluzione Onu, hanno discusso con i militari siriani, parlato con la gente di Zabadani inferocita con il regime, scattato fotografie e raccolto prove. «Certamente - dice il colonnello Alejandro Faitosa dei marines brasiliani - ci sono violazioni della tregua: carri armati e artiglieria sono ancora schierati nei centri abitati o nascosti tra le case, e questo non è conforme agli accordi». Ma forse nel rapporto dell'Onu non entrerà il camion di soldati che a tutta velocità percorreva l'autostrada con un ferito sdraiato sul pianale, uno dei segnali che intorno la battaglia, nonostante la calma apparente di Zabadani, è tutt'altro che finita.

L'impressione è che la guerra civile siriana - 10mila morti dall'inizio della rivolta del marzo 2001- non si spegnerà né con l'arrivo dei caschi blu, soltanto una cinquantina per ora sui 300 previsti, e neppure con le elezioni politiche convocate da Assad, un'operazione cosmetica del regime assai poco convincente e che riguarderà una parte soltanto della Siria: ma l'allerta sicurezza è massimo per il timore di attentati e raid della guerriglia.

L'impatto con la gente di Zabadani, nel cuore del souk della città, è quasi violento. "Idam al Rais", Impicchiamo il Rais, grida un gruppo di giovani barbuti che è facile classificare per lo stereotipo mediorientale come salafiti. L'apparenza è quella di guerriglieri che hanno lasciato a casa il kalashnikov per accogliere gli stranieri che qui, tra posti di blocco e divieti, non arrivano facilmente. Ma nel cuore del souk la folla è ancora più esasperata: reclama la liberazione dei detenuti e invoca un sostegno armato per il Free Syrian Army, un'entità che qui rimane comunque vaga e indistinta. «Hanno colpito la riserva dell'acqua, sequestrato la popolazione e interrotto la corrente: questa è una grande prigione», gridano tutti insieme sommergendo telecamere e osservatori dell'Onu.

La vernice sui muri gronda maledizioni contro Bashar, quasi ovunque compaiono le scritte "Hurriya, Hurriya", Libertà, Libertà, e hanno incollato in file ordinate le foto degli shadid, dei martiri. Eppure i segni della battaglia, al contrario di quanto avviene a Homs e di Daraa, qui sono poco visibili: si intravedono i fori di raffiche di mitragliatore, qualche scheggia di granata che ha sbreccato un cornicione. Abu Samer, capelli grigi, cinquantenne, mostra una ferita alla gamba, forse un proiettile di rimbalzo, e reclama che gli hanno abbattutto la casa. «Vi stanno ingannando - grida la folla del souk - i carri armati sono intorno alla città, dovete salire sopra al cimitero».

A Madaya, uno dei sobborghi di Zabadani, i berretti blu individuano, sorvegliata da un blindato, una postazione di sniper dell'esercito siriano dentro a un palazzo in costruzione. I militari che accompagnano gli osservatori dell'Onu hanno ricevuto da Damasco ordini precisi: sorridono ai check point e appaiono cordiali, per niente infastiditi dall'ispezione. Sul nido dei cecchini ci sono degli anfibi neri gettati fuori dalla porta di un ricovero angusto dotato soltanto di una feritoia: forse qui i soldati hanno avuto tutto il tempo necessario per far sparire le tracce più compromettenti della repressione.

A un giovane capitano, davanti a un carro sovietico per il trasporto truppe, colpito sul fianco da una granata, chiediamo chi è il loro nemico: «Abbiamo combattuto contro 1.500 guerriglieri ma ora li abbiamo sconfitti: terrorizzavano la popolazione, distruggevano le infrastrutture statali, uccidevano i funzionari del governo, si trattava di bande di criminali che venivano dal Libano e dalla Libia, asserragliati in quelle montagne che vede laggiù». E indica con un braccio il Jebel libanese, una cresta di vette che separa la Siria dal confine con la Bekaa.

L'importazione della guerriglia dall'estero e la tesi del complotto straniero è quella dominante da parte del regime e di gran parte della popolazione che lo sostiene. A Sirgaya una piccola folla, adunata per l'occasione, accoglie la stampa e gli osservatori dell'Onu invocando il nome di Bashar: «La colpa è di Al Jazeera e Al Arabya: sono loro, le tv del Golfo, che costruiscono questa montatura dell'opposizione, la colpa è dell'emiro del Qatar». Ma è proprio alla periferia di Sirgaya che i berretti blu si fermano a controllare i thank sovietici interrati nelle buche: nell'aria c'è ancora l'odore acre delle raffiche dei cannoni ai quali hanno tolto velocemente gli otturatori. Bashar Assad è stato più astuto di Gheddafi: non ha fatto muovere colonne di carri armati e nugoli di truppe come fece il raìs libico intorno a Bengasi, che sono poi diventati un facile bersaglio degli americani e delle Nato. Anche per questo in Siria il confine tra verità e menzogna appare sempre molto sottile.

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