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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2012 alle ore 19:48.

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Le elezioni in Siria tra boicottaggi e propagandaLe elezioni in Siria tra boicottaggi e propaganda

DAMASCO - Le opposizioni hanno proclamato il boicottaggio, definendo le elezioni parlamentari una farsa, il presidente Bashar Assad ha risposto premendo sul pedale della propaganda in un Paese devastato dal marzo 2011 da scontri e manifestazioni, con 10mila morti tra i civili. Al regime interessava vincere almeno la battaglia mediatica trasportando le telecamere straniere davanti ai seggi di Damasco: per la verità di un settore soltanto della capitale, perché l'area delle periferie, quella della protesta più bollente, è stata vietata ai giornalisti stranieri. Così come rimangono off limits molte delle città più colpite dalla repressione, come Hama, Homs, Idlib.

Eppure una parte dei 14 milioni di siriani chiamati alle urne - non sappiamo davvero quanti - a Damasco è andata alle urne in elezioni che per la prima volta vedevano la fine del monopolio del partito Baath, sei partiti e numerose liste di indipendenti con molti candidati cristiani e di altre minoranze sui 7mila in corsa per i 250 seggi da deputato: il piano del regime è quello di attenuare il peso della maggioranza sunnita che comunque costituisce la parte preponderante della protesta, anche se certamente non l'unica.

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Le voci che abbiamo raccolto esprimono una speranza, forse non troppo convinta, per il futuro. A un seggio dei quartieri centrali della borghesia incontriamo la signora Nawal, 45 anni, insegnante: «Questo è un Paese con una corruzione diffusa, ramificata, ma le elezioni sono l'unico modo pacifico per potere cambiare qualche cosa». All'Istituto professionale di Rue Baghdad, un edificio novecentesco con la facciata moresca, Abdul Karim si proclama musulmano credente e praticante ma vota con convinzione perché dice: «Non sono d'accordo con quelli che vogliono imporre l'Islam con il fucile».

Chi è andato a votare, forse per prudenza o per opportunità - molti sono dipendenti pubblici - riconosce che il regime ha fallito nell'affrontare la protesta ma accusa più le forze di sicurezza e le influenze straniere dei Peasi arabi del Golfo che Bashar Assad.

«Il presidente Assad - dice Karim - è stritolato dalla cerchia familiare del potere, non è in grado di controllare tutto quello che avviene in Siria».

Nel quartiere di Douala, diviso a metà tra cristiani musulmani, siamo accolti dai cori in favore di Assad, con giovani che distribuiscono con zelo l'elenco dei candidati nelle liste e migliaia di manifesti che invadono la strada centrale. «C'è uno spirito nuovo in queste elezioni che mi sembrano più libere delle altre quando ci facevano votare liste con le preferenze già assegnate», afferma Hytama Kashua, un quarantenne che ha trascorso metà della sua vita in Svezia. «Non pensa che anche questa volta possano manipolare il voto?», domandiamo. «Certo possono farlo ma altri imbrogli aggraverebbero ancora di più la situazione: ho la sperenza che queste elezioni fermimo la violenza da entrambe le parti».

I manifesti elettorali hanno invaso anche lo storico quartiere di Bab Touma. Accanto alla moschea Omayyade alle colonne romane e alle antiche chiese cristiane, un negoziante espone le foto di un'icona rivoluzionaria, Che Guevara, più avanti un altro sventola la bandiera degli Hezbollah libanesi e del loro leader Nasrallah, alleati di Bashar, mentre nella strada che conduce al Nawara Café qualcuno ha dipinto una bandiera israeliana regolarmente calpestata dai passanti: questo simbolo di ostilità nei confronti dello Stato israeliano, che occupa le alture del Golan, forse è l'ultimo che mette ancora d'accordo i siriani, divisi ormai su tutto.

La società siriana, descritta dal punto di vista confessionale come una maggioranza sunnita sottomessa al potere alauita degli Assad, con le minoranze sciite, cristiane, druse e isamilite a fare da corona, è in realtà un mix complesso dove si trovano islamisti, liberali, nazionalisti, panarabisti, socialisti, atei e credenti: anche questo è la Siria, un elemento fondamentale degli equilibri del Medio Oriente, oggi al centro di una rivolta, sull'orlo della guerra civile, che sta diventando una battaglia tra potenze per l'egemonia regionale.

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