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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2012 alle ore 10:55.

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È una luna di fiele quella tra gli imprenditori nordestini e l'agenzia austriaca per l'attrazione degli investimenti. Villa Braida, un resort perso tra la campagna tagliata dal monumentale passante di Mestre e dai campi di granturco, una volta ospitava le adunate oceaniche della classe dirigente veneta incantata dal neonato movimento del Nord-Est inventato dai pifferai magici Massimo Cacciari e Giorgio Lago.

Correva l'anno 1996, un'altra era geologica. Ora Johnny Malaman, un quarantenne padovano accompagnato dal padre Antonio e dal fratello Claudio, proprietari della Arco di Padova, una fabbrica di verniciatura di superfici metalliche con 45 dipendenti, ingoia la fritturina che i camerieri servono nel giardino all'italiana ai 400 imprenditori accorsi persino da Lugo di Romagna e sentenzia: «Vogliamo andare in Carinzia per diversificare il rischio Italia. Qui non abbiamo più certezze. Il governo Monti è la ciliegina sulla torta, si dovrebbe scavare su quello che è accaduto in Italia negli ultimi trent'anni. Uno scandalo in piena regola. La politica? Siamo indipendentisti ma la Lega ci ha nauseati: in Veneto Bossi è bruciato».

I Malaman sono accompagnati da Emilio Brunati da Castelfranco Veneto, proprietario di una fabbrica di impiantistica con 20 dipendenti: «Anche noi siamo decisi ad andarcene, all'inizio, per tastare il terreno, apriremo una filiale commerciale, una sorta di testa di ponte per piazzare i nostri prodotti in Germania e nell'Est Europa. Cosa penso dell'Italia? Mi faccia una domanda di riserva, per favore. Anzi, no. Mi viene solo una cosa in mente. Ma come fanno i politici a non vergognarsi? Noi volevamo il federalismo e una tassazione equa. Cose che conquisteremo solo quando l'Austria ci annetterà». Brunati e i Malaman scoppiano in una risata. Ma è un riso amaro. Il patriarca Antonio non parla. Lui ha chiamato il figlio maggiore Johnny perché non si perdeva un discorso in tv di Jfk. Gli altri sono molto più guardinghi.

C'è un altro imprenditore di Castelfranco disposto a dire solo l'età. «Ho 68 anni, ma non voglio rogne. Ho chiuso la mia segheria con quattro dipendenti il 31 dicembre. L'Italia non mi interessa più. Da noi non c'è né giustizia né economia né politica». Le facce tirate degli italiani stridono un po' con i volti smaglianti degli austriaci, presenti con uno staff di una ventina di persone, oltre la metà donne: ci sono i funzionari dei consolati di Padova, Milano e Bolzano; e poi i dirigenti di Invest in Carinzia - una delle nove regioni austriache - la più vicina al confine con il Friuli, e poi gli esperti dell'agenzia nazionale Aba, l'Austrian business agency. Maurizio Bossi-Fedrigotti è un consulente di Aba. Trentino di mamma viennese, lavora da vent'anni con la società governativa per l'attrazione degli investimenti: «Dalla metà dell'anno scorso gli italiani ci martellano con richieste di informazioni».

I veneti hanno sempre brontolato, non è una novità. Ma stavolta è diverso. Gli austriaci lo sanno. La giornalista che modera l'incontro con la stampa fa una serie di battute ironiche rivolte al premier Mario Monti e alla segretaria della Cgil Susanna Camusso. Dice: «Chissà se Monti sa che in Austria la tassazione per le aziende è del 25 per cento». E poi: «Forse alla Camusso dovreste dire che da noi i lavoratori si possono licenziare senza specificarne il motivo e con un preavviso di sei settimane». Alla fine una mitragliata di numeri: un terreno all'interno di un parco industriale costa 25 euro al metro quadrato, con tanto di assistenza gratuita a 360 gradi, compreso un interprete in lingua italiana. Negli ultimi dieci anni 80 aziende italiane (per un totale di 800 posti di lavoro) hanno scelto l'Austria. Dieci sono venete. Ma le manifestazioni d'interesse sono un centinaio, metà delle quali nordestine. I tempi sono nordeuropei. La Danieli di Udine ha messo in moto il suo stabilimento nove mesi dopo aver sottoscritto l'accordo. In Italia si riesce a mettere al mondo un figlio. Che nessuno, peraltro, vuole più.

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