Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2012 alle ore 10:32.

My24
foto Lapressefoto Lapresse

Alla vigilia del colpo di stato dei militari del gennaio 1992 che in Algeria bloccò l'ascesa del Fronte islamico di salvezza (Fis), chiesi al direttore del Watan, Omar Belhoucet, chi votasse per il Fis: «Guarda fuori della finestra, è un algerino su tre di quelli che passano per strada». Vent'anni dopo il decennio di piombo - 200mila morti e 20mila desaparecidos - in Algeria è andato alle urne meno del 43% e il Watan ha aperto la prima pagina con questo titolo: «Il 57% degli algerini non vota». Una stragrande maggioranza, spiega oggi Belhoucet, sfuggito a una mezza dozzina di attentati, che è sempre più delusa e distaccata dalla politica.

Le elezioni non convincono gli algerini e i risultati sono scontati: una larga vittoria, con 220 seggi su 462, del Fronte di liberazione nazionale (Fln) e del suo alleato Raggruppamento nazionale per la democrazia (68 seggi), mentre l'Alleanza di tre partiti islamici ha raccolto 48 seggi, molto al di sotto delle aspettative.

Nel gennaio 2011 la primavera araba era cominciata in contemporanea a Tunisi e Algeri ma un anno dopo nella repubblica del presidente Bouteflika prevale l'apatia. Per restare in sella il potere ha usato il bastone della repressione ma anche la carota dei sussidi e delle sovvenzioni aprendo le casse pubbliche rimpinguate dalle entrate del gas e del petrolio (72 miliardi di dollari nel 2011): tutti i beni di largo consumo sono calmierati e il salario minimo garantito è salito a 180 euro al mese.
"Le pouvoir", come lo chiamano ad Algeri, ha fatto di tutto per scongiurare il contagio della primavera araba.

Le elezioni uniscono e dividono allo stesso tempo il mondo arabo che presenta almeno tre-quattro volti contrastanti. In Libia costituiscono un esperimento assoluto: qui non si è mai votato davvero negli ultimi 50 anni e se mai si andrà alle urne avverrà con un governo virtuale e 60 gruppi armati. Al contrario dell'Egitto dove, nonostante la violenza che ancora percorre il Paese, giovedì sera il dibattito in tv dei candidati presidenziali, l'ex ministro degli Esteri Amr Moussa e l'islamista moderato Abul Fotouh, ex leader dei Fratelli Musulmani, è stato seguito con la passione di un derby calcistico.

Un confronto che dopo le schermaglie iniziali è diventato al calor bianco: Moussa ha accusato il suo avversario di essere un finto moderato, citando da un libro di Fotouh delle dichiarazioni a favore della violenza. L'islamista, che ha passato qualche anno in carcere, ha replicato che Moussa è stato complice del sistema repressivo e corrotto di Mubarak. I sondaggi si contraddicono, alcuni danno in testa Moussa, altri Fotouh, ma è certo che il 23 maggio, il giorno del voto, saranno milioni gli egiziani alle urne.

Le elezioni, come è avvenuto in Siria il 7 maggio, possono rappresentare, con un multipartitismo di facciata, l'estremo tentativo di una dittatura per legittimarsi. Il voto, boicottato dall'opposizione, ha decretato ancora una volta la vittoria del partito Baath, oscurata sui media dalla strage del 10 maggio a Damasco, un attentato di cui il regime e i ribelli si accusano a vicenda di essere gli ispiratori.

A proposito della Siria è affiorato in questo periodo il parallelo con l'anarchia irachena ma anche con l'Algeria, dove la lotta ai gruppi islamici e al terrorismo fu condotta dal potere con ogni mezzo, al punto che venne definita la "sale guerre", la guerra sporca. I confronti possono essere arbitrari ma una cosa avvicina la Siria e l'Algeria: il terrorismo e gli stessi metodi per combatterlo negli stati autoritari uccidono la gente ma anche la politica. Per riportare la fiducia nei cittadini, lo dimostra il caso algerino, non bastano decenni. È questa la deriva più profonda che rischia la Siria in questo conflitto: una lacerazione irrimediabile della società civile.

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi