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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2012 alle ore 06:40.

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Alla fine il complicato puzzle leghista si è ricomposto. Umberto Bossi padre nobile e presidente federale, Roberto Maroni, alfiere della Lega moderata che aspira all'egemonia del Nord, segretario federale affiancato da due vicesegretari vicari di nuovo conio. Un ruolo che sembra ritagliato su misura per i due triumviri che con l'ex ministro degli Interni gestiscono questa tormentata fase di transizione.

Per far posto a Calderoli e a Manuela Dal Lago si rimetterà mano allo Statuto della Lega, un testo che andrà rivisto anche in altre parti, soprattutto in quella in cui si prevede che presidente e segretario federale siano espressione di due regioni (nazioni nel lessico leghista) diverse. Bossi e Maroni non solo sono lombardi ma sono entrambi della provincia di Varese, il brodo primordiale della Lega lombarda.
In realtà, i giochi erano fatti già dall'incontro di Besozzo - manco a dirlo in provincia di Varese - del 21 aprile, quando Bossi e Maroni parlarono fitto fitto dietro il palco sul quale si era appena esibito Bobo. Il fatto che il senatùr avesse raggiunto il delfino senza essere stato invitato, era parso a tutti il segnale inequivocabile della raggiunta unità. Poi l'intervista di una cronista nella quale Bossi si lascia scappare che se glielo avessero proposto si sarebbe candidato di nuovo alla leadership «per il bene della Lega». Un falso allarme, insomma.

O forse l'ultimo atto di una trattativa in extremis per stabilire chi e come occuperà le posizioni strategiche del partito. L'ultima apparizione di Bossi, quella del 4 maggio a Monza, è stato una sorta di testamento: «Vogliatevi bene e non fatevi la guerra al congresso».
I risultati elettorali sono ancora oggi pesanti da digerire. Marco Mariani, sindaco di Monza, non è andato al ballottaggio. I sondaggi continuano impietosi a snocciolare percentuali che viaggiano sotto il 5 per cento. Tutto ampiamente previsto. Una sorta di rito purificatore, dicono i leghisti più saggi, consapevoli che la partita decisiva si deciderà alle Politiche del 2013.

I congressi nazionali e poi quello federale misureranno lo stato di vitalità del movimento. Solo lì si capirà quanto e come sono state metabolizzate le inchieste della magistratura. Se non la guerra vera e propria, delle scaramucce ci saranno di certo. Sicuramente in Veneto, dove Toni Da Re, sindaco di Vittorio Veneto e dominus per 15 anni della Lega trevigiana, ha formalizzato la sua candidatura alla segreteria nazionale, ruolo al quale ambisce il trionfante sindaco di Verona Flavio Tosi. Da Re rappresenta il punto di equilibrio tra gobbiani (quindi bossiani) e maroniani. È uno dei firmatari del documento scritto dall'ex sindaco di Oderzo ed ex parlamentare Bepi Covre e dal sindaco di Montebelluna Marzio Favero (si veda il Sole 24 Ore del 13 aprile). Un manifesto politico che inneggia a una Lega moderata, liberale che rinneghi la xenofobia e le volgari sparate bossiane.

Il documento, attualmente in progress, quindi aperto ad altre considerazioni, potrebbe costituire il nocciolo duro del nuovo partito che Maroni tra mille difficoltà si sta sforzando di far nascere. Covre e Favero sono i portavoce di molti militanti e tantissimi amministratori locali che chiedono ai vertici del movimento una rivoluzione culturale.
Diversa la partita del congresso lombardo, dove l'europarlamentare e maroniano di ferro Matteo Salvini dovrebbe essere candidato unico alla segreteria, a meno che il deputato Giacomo Stucchi non decida di correre per vivacizzare il confronto. Un po' lo stesso copione che si reciterà al congresso federale di luglio: Maroni candidato unico per volere di Umberto Bossi, il fondatore del movimento riconfermato per acclamazione presidente federale. La rappresentazione di un movimento coeso a uso e consumo di militanti e simpatizzanti.

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