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Questo articolo è stato pubblicato il 16 maggio 2012 alle ore 07:06.
La decisione del presidente della Repubblica Karolos Papoulias di indire nuove elezioni in Grecia dopo quelle dall'esito inconcludente del 6 maggio è il risultato di una settimana segnata da bracci di ferro diplomatici, dichiarazioni estemporanee, insofferenze politiche, ad Atene, ma anche nelle altre capitali della zona euro. Ieri, la moneta unica si è indebolita, le borse sono calate, i rendimenti obbligazionari dei paesi più deboli - Italia e Spagna in testa - hanno superato il 6 per cento.
«Mentre le elezioni della settimana scorsa hanno riguardato principalmente la politica di austerità di bilancio - spiega Erik Nielsen, economista di UniCredit -, le prossime saranno un referendum sull'euro». Il commento è anche un avvertimento all'establishment europeo. La classe politica greca non è riuscita a mettersi d'accordo sulla formazione di un nuovo governo, creando nella zona euro le condizioni per un nuovo sconquasso alla Lehman Brothers. Anche i partner europei hanno le loro colpe.
Negli ultimi giorni hanno maneggiato la carota e il bastone, fatto pressione sulla Grecia perché formasse al più presto un nuovo governo, oscillando tra dichiarazioni di principio sulla sovranità democratica del paese e minacce di abbandonare i greci al loro destino. Fare pressione è un'operazione delicata. Se non produce effetti rapidamente, chi utilizza questo strumento rischia di fare overshooting come si dice sui mercati valutari, più semplicemente di esagerare.
È successo nei giorni scorsi quando il ministro delle Finanze austriaco Maria Fekter, ha affermato provocatoriamente: «La Grecia non può uscire dalla zona euro ma può abbandonare l'Unione europea e quindi la moneta unica, i trattati lo prevedono». Agli occhi di un investitore a Singapore o a Hong Kong, ignaro delle sottigliezze della politica europea, alcune dichiarazioni dei giorni scorsi sono sembrate il benestare a uno smembramento dell'unione monetaria.
Il presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker è stato costretto a correggere il tiro, in un gioco delle parti che si è rivelato pericolosissimo: ha quindi definito «irrefrenabile» il desiderio della zona euro di mantenere la Grecia nell'Unione monetaria. Poiché la ristrutturazione del debito greco all'inizio dell'anno si è svolta senza troppi patemi d'animo, molti ritengono nello stesso modo che l'uscita della Grecia dall'Unione monetaria potrebbe essere tutto sommato gestibile.
A Bruxelles numerosi diplomatici non nascondono la loro preoccupazione. In tedesco si parla di Unzeitgemässigkeit, un concetto che indica l'inopportunità temporale degli eventi che finiscono in una data fase per scontrarsi l'uno con l'altro trasformandosi in una miscela incontrollabile. L'uscita della Grecia dalla zona euro potrebbe influenzare anche la Spagna, alle prese con una crisi bancaria, fino a provocare un effetto-domino che facilmente trascinerebbe con sé anche l'Italia.
Chi vuole essere ottimista, fa notare una contraddizione che potrebbe nascondere una via di uscita: il 6 maggio, il 68% dei greci ha votato per leader politici che esigono in un modo o nell'altro di rivedere il programma di aggiustamento firmato con l'Europa. Al tempo stesso il 78% degli elettori vuole che «il governo faccia tutto il possibile per rimanere nella zona euro». Dinanzi a queste cifre, c'è chi crede che i partiti più estremisti saranno costretti ad ammorbidire le loro posizioni.
Comunque rivedere semplicemente il mix di politica economica tra crescita e austerità rischia di non convincere né la società greca, né i mercati finanziari, in un contesto nel quale l'urgenza impone scelte più rapide e più drastiche, come per esempio una graduale mutualizzazione dei debiti. Il Parlamento europeo ha approvato lunedì in commissione una proposta in questo senso, attraverso un fondo di redenzione (redemption fund), con il voto favorevole dei socialdemocratici e dei liberali tedeschi. Una strada percorribile?
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