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Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2012 alle ore 06:47.

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In abito grigio, sorridente, ostentando un atteggiamento di sfida, il generale Ratko Mladic, a un anno di distanza dalla cattura, è comparso all'Aja davanti al tribunale per l'ex Jugoslavia come un settantenne in perfetta forma nonostante tre attacchi cardiaci, forse infastidito di dovere rispondere del massacro di Srebrenica (8mila morti) dell'assedio di Sarajevo (più di 10mila vittime), della pulizia etnica dei musulmani della Bosnia tra il 1992 e il '95 e di altre 11 accuse, tra cui genocidio e crimini di guerra.
Si è aperto così un processo che scaverà tra i massacri dei Balcani e nella memoria, a volte intermittente, dell'Europa, mettendo a confronto vecchia e nuova Serbia, in un rimando tra passato e presente che solleverà più di qualche interrogativo inquietante: il generale è alla resa dei conti ma anche noi europei dovremo farli con una storia che si vorrebbe facilmente dimenticare. Mladic ha dichiarato: «Non temo nessuno, ho difeso il mio popolo e non Ratko Mladic». Sostiene dunque il generale di avere combattuto per quella Serbia, dove domenica andranno al ballottaggio il presidente uscente Tadic e il rivale Nikolic, che grazie anche al suo arresto ha ottenuto lo status di candidato all'Unione.
Il nome di Mladic, latitante in Serbia per sedici anni tra complicità e protezioni, compare sui muri di Belgrado accanto alla parola "eroe" e lo stesso processo dell'Aja ha suscitato, secondo un recente sondaggio, opinioni contrastanti: la metà della popolazione è convinta che non sia responsabile dei crimini di cui è accusato e oltre il 70% si dichiara critico sulle possibilità del tribunale di contribuire alla pacificazione dei Balcani.
Se il primo punto è inaccettabile - Mladic è stato senza dubbio un massacratore - e rivela che sulla Serbia si allunga ancora l'ombra di Slobodan Milosevic, il secondo è più controverso. Se non ci fossero i militari della Nato e i soldi dell'Unione Europea, gli stati di Bosnia, Kosovo e Macedonia forse sarebbero già saltati in aria. La Bosnia è un'entità bicefala che si regge su volatili alchimie, l'indipendenza del Kosovo non è riconosciuta da metà dell'Onu (tra cui Russia e Cina), l'ex repubblica jugoslava di Macedonia non ha neppure un nome definitivo.
Vent'anni dopo il crollo della Jugoslavia fondata dal Maresciallo Tito, questo è ancora un mondo di ex che con l'adesione all'Unione spera di alleggerire il peso del passato e rimarginare ferite aperte. Due decenni dopo l'assedio di Sarajevo, un anniversario molto mediatizzato ma poco indagato nella realtà bosniaca attuale, i Balcani restano l'"altra Europa". Qui niente è facile: i conflitti degli anni ‘90 continuano a ulcerare etnie e nazioni.
La memoria lasciata da Ratko Mladic alle sue vittime è indelebile. Emir Suljagic, testimone, ex ministro della cultura a Sarajevo, autore di un libro di memorie, "Cartoline dalla fossa", incontrò Mladic il 12 luglio a Potocarì, dove oggi sorge il memoriale di Srebrenica, enclave musulmana che doveva essere protetta dall'Onu. «Ero andato lì come traduttore dell'Onu ma fui lasciato solo davanti a lui. Il generale prese la mia carta d'identità, chiedendomi se avessi già fatto il servizio militare. Tremavo di paura. Fece qualche passo, poi si voltò ancora verso di me. Gli chiesi di riavere i documenti. Pensavo che mi avrebbe ucciso con gli altri e non volevo diventare un cadavere senza nome in una fossa».
Il generale lo risparmiò, senza una ragione, così come in quelle ore si era fatto riprendere in tv accarezzando con sanguinaria tenerezza la testa di un bambino bosniaco. Così come, senza motivo, i caschi blu olandesi e il generale avevano brindato insieme mentre si scavavano le fosse comuni. Emir fu l'unico della famiglia a sopravvivere. «Sono ancora qui perché Mladic si sentiva come Dio: aveva potere di vita e di morte. Per lui ero un insetto che avrebbe potuto schiacciare in qualunque momento come fece con altre migliaia». Lo sguardo di Mladic e di Emir si incroceranno ancora all'Aja, 12 anni dopo: ma il generale che si sentiva un dio questa volta è alla sbarra.
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DAVANTI AI GIUDICI DOPO 17 ANNI
Undici capi d'accusa
Un eroe per i nazionalisti serbi, il "macellaio di Bosnia" per le sue vittime, croati e musulmani bosniaci. Il generale Ratko Mladic, 70 anni, è l'ultimo dei principali protagonisti delle guerre balcaniche degli anni 90 a essere giudicato dalla Corte penale internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia (nella foto, ieri all'apertura del processo). Le 11 accuse a suo carico vanno dal genocidio ai crimini di guerra ai crimini contro l'umanità. Tra questi il massacro di 8.000 musulmani a Srebrenica, uomini e ragazzi disarmati, e il lungo assedio alla capitale bosniaca, Sarajevo, durante il quale vennero uccise più di 10mila persone
Il momento del giudizio
Furono proprio gli orrori di Sarajevo e di Srebrenica a far schierare l'opinione pubblica a sostegno dell'intervento aereo occidentale che mise fine alla guerra in Bosnia (1992-1995). Nel '95 Mladic venne incriminato insieme a Radovan Karadzic, leader politico dei serbi di Bosnia, ugualmente sotto processo all'Aja. Prima di loro, all'Aja era stato processato Slobodan Milosevic, leader serbo accusato per le operazioni di pulizia etnica dell'esercito jugoslavo contro i musulmani in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo. Consegnato al Tribunale internazionale nel 2001, Milosevic venne trovato morto in cella all'Aja nel 2006

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