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Questo articolo è stato pubblicato il 20 maggio 2012 alle ore 08:12.

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MILANO
Il giorno prima del ballottaggio per le amministrative, in cui la Lega non ha annunciato nessun appoggio ai candidati del Pdl in corsa nel Nord Italia, l'ex leader leghista Umberto Bossi cerca di nuovo di sorprendere - o provocare - il suo partito e i militanti. E dichiara: «Non è vero che ho intenzione di lasciare. Piacerebbe al sistema e ai suoi uomini, ma lascerò soltanto quando la Padania trionferà».
Il messaggio di ieri, a commento delle indiscrezioni che volevano Bossi ormai in uscita dal Carroccio, non è di così difficile interpretazione. Ufficialmente è rivolto alla solita "Roma ladrona", al sistema democratico italiano, più volte criticato recentemente dal l'ex senatùr. Ma tra le righe si potrebbe intuire che «il sistema e i suoi uomini» rappresentino in realtà i maroniani, che nelle ultime settimane hanno di fatto preso il controllo del partito.
Insomma, Bossi, che pure ha lasciato l'incarico di segretario federale con l'inizio delle inchieste sulla Lega, dichiara di non voler mollare, nemmeno dopo l'avviso di garanzia per frode allo Stato che pochi giorni fa gli è stato recapitato dalla procura di Milano; e nemmeno dopo l'avvio delle indagini a carico dei figli Renzo e Riccardo, accusati di appropriazione indebita dei rimborsi elettorali del Carroccio. Per gli inquirenti infatti, Bossi non poteva non sapere, ed era a conoscenza del fatto che i figli utilizzassero i finanziamenti anche per mettersi in tasca una paghetta da 5mila euro al mese. Proprio su questa vicenda Bossi ieri ha commentato che «la storia della paghetta non è vera, e l'errore è stato di fare entrare nella Lega dei ragazzi troppo giovani, facilmente raggirabili».
Cosa realmente voglia però fare l'ex leader non è chiaro: una candidatura a segretario è improbabile, mentre la presidenza è praticamente un fatto già accettato da tutti, che non ha bisogno di annunci. Si tratta quindi probabilmente di una provocazione nei confronti dei maroniani, segno evidente di una battaglia ancora in corso.
Nel partito ci sono infatti due differenti tensioni: c'è chi ancora si stringe intorno all'ex senatùr, e lo vorrebbe ancora in sella per garantire la continuità; c'è chi, Roberto Maroni in primis, vorrebbe inserire nuovi uomini.
I maroniani in questo momento sembrerebbero i vincitori dello scontro fra le due anime: due giorni fa l'europarlamentare Matteo Salvini, vicino all'ex ministro degli Interni, è stato nominato ufficialmente candidato unico per la segreteria della Lombardia, il principale territorio per i leghisti (sostenuto, oltre che da Maroni, da Bruno Caparini, Attilio Fontana e Luca Zaia). E per quanto riguarda il Veneto, sarebbe ormai in dirittura d'arrivo la candidatura di Flavio Tosi, sindaco di Verona.
Ieri è stato proprio Maroni a rilasciare, anche lui, una dichiarazione sul rinnovamento del partito, con una frase altrettanto significativa. «Se qualcuno che è stato espulso dice che la Lega è morta ha ragione. Ma è morta quella Lega, la sua, quella non c'è più. Esiste, rimane e continuerà la Lega delle origini, sulle cui sorti sono ottimista», dice alludendo alle parole di Rosi Mauro, espulsa dal partito, secondo cui il Carroccio sarebbe morto a causa di un complotto. Insomma la guerra tra bossiani e maroniani è ancora aperta.
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