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Ecco le poesie dei talebani. Anche i cattivi amano i versi (prima di loro Stalin, Khomeini e Karadzic)

5. Dittatori, despoti con la passione per la rima

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La passione dei talebani per la lirica non deve stupire più di tanto. Nel Novecento, infatti, molti dittatori hanno esibito una vena poetica insospettabile. È il caso, ad esempio, di Stalin. Il futuro leader dell'Unione sovietica, quando era ancora il seminarista Iosif Vissarionovic Dzugasvili, appena diciassettenne e imbevuto del poema epico nazionale georgiano, "Il cavaliere con la pelle di pantera" scritto nel XII secolo da Shota Rustaveli, affidò i suoi timidi esordi letterari in versi a Ilia Chavchavadze, uno dei più importanti scrittori georgiani del tempo. Quest'ultimo si fece suo sponsor e nel 1895 fece pubblicare cinque poesie del giovane Stalin, con lo pseudonimo Soselo, nelle pagine di Iveria, prestigioso periodico letterario in lingua russa edito in quegli anni a Tbilisi.
Anche la penna arroventata dell'ayatollah Khomeini, come svelò poco dopo la sua morte il quotidiano iraniano Kayhan, poi ripreso dal periodico americano The New Republic, non si consumava soltanto in testi politici teologici, ma anche in poesie, che, riprendendo l'antica tradizione persiana, accoglievano metafore alcoliche o amorose per parlare con afflato mistico di una fede religiosa in cui questi temi appaiono perlopiù banditi.

Anche l'ex presidente turkmeno Saparmurat Niyazov (1940-2006), meglio noto come Turkmenbashi, cioè "Leader dei turkmeni", fu autore di sillogi di versi. Nonostante il valore letterario non eccelso, ad Asgabat, all'ombra della sua colossale statua aurea costruita per ruotare seguendo il sole, le poesie del Turkmenbashi sono state inflitte ad alcune generazioni di studenti.

Assai nota è anche la prolificità lirica dell'ex leader politico dell'autoproclamata Republika Srpska di Bosnia durante le guerre in Jugoslavia, Radovan Karadzic, che è attualmente ospite delle celle del Tribunale internazionale dell'Aia, imputato di genocidio e crimini contro l'umanità. Karadzic ha scritto sempre: quando lavorava come psichiatra, quando teorizzava la pulizia etnica e stringeva d'assedio Sarajevo, quando per sfuggire alla cattura si nascondeva sotto le sembianze fasulle dell'esperto di medicina alternativa Dragan Dabic. Al netto di molte raccolte pubblicate, di qualche premio vinto e di qualche traduzione (anche in italiano: suoi versi apparvero nella rivista pugliese La Vallisa), i versi di Karadzic non sono indimenticabili. Eppure le sue poesie non sono sprovviste di un tragico valore profetico. Basti pensare a un verso della poesia intitolata "Sarajevo", scritta prima della guerra di Bosnia: "La città brucia come un pezzetto di incenso". Facile profezia, in fin dei conti. Lui stesso si impegnò a trasformare la sua immagine visionaria in una drammatica realtà durata quattro anni e costata migliaia di morti.

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