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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2012 alle ore 06:38.

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L'uomo che silenziosamente sta costruendo il nuovo Egitto è del tutto sconosciuto fuori dal Paese. E dentro, non c'è strada in cui la sua effigie sia esposta come quella di un rais. Si chiama Faruk Sultan. Un giudice oscuro fino a che, qualche anno fa, Hosni Mubarak - inspiegabilmente se non per la certezza dell'obbedienza - lo elevò al rango di presidente della Corte Costituzionale.
In tutte le rivoluzioni capita che, mostrando un'inaspettata accortezza, i servi sopravvivano ai loro benefattori. È il caso di Sultan, non solo lasciato al suo posto dal consiglio militare dopo piazza Tahrir e l'arresto di Mubarak, ma nominato anche capo dell'Alta commissione elettorale. È lui che il mese scorso ha proditoriamente escluso dalla gara elettorale i candidati più problematici e ammesso altri, mostrando una specie di autoritario buonsenso. Ha buttato fuori dalla contesa il brillante imprenditore Kairat al-Shater che avrebbe sicuramente vinto, dando ai Fratelli musulmani un potere pericolosamente eccessivo; ha escluso Omar Suleiman, simbolo del vecchio regime che avrebbe polarizzato la contesa; fuori anche il salafita Salah Abu Ismail, troppo estremista per una campagna elettorale nella quale gli egiziani sceglieranno il loro presidente con una libertà fino ad ora sconosciuta.
Con giustificazioni più che discutibili sul piano legale, eliminando quei candidati Faruk Sultan ha evitato la guerra civile. Non ha scelto chi sarà il presidente: oggi e domani i 13 candidati ammessi faranno una gara vera; presumendo che nessuno avrà la maggioranza assoluta, il 16 e 17 giugno i due migliori andranno al ballottaggio. Ma Sultan ha orientato discretamente le scelte, riducendole a un manipolo di uomini apparentemente più adatti a una transizione. Perché quella egiziana, esclusi i primi giorni del gennaio-febbraio 2011, non è mai stata una rivoluzione. È un cammino tortuoso, a volte violento, altre virtuoso, verso una nuova ma non nuovissima forma di potere.
Poiché l'Egitto, preso dalle sue agitazioni, non ha ancora riformato la Costituzione, sul piano teorico il presidente che uscirà dal voto avrà lo stesso potere assoluto di Hosni Mubarak. Dei 13 candidati tre possono vincere e altri due hanno qualche possibilità di arrivare al ballottaggio di metà giugno. Il primo è Amr Mussa, il più abile, il più adatto ad ogni stagione: ministro degli Esteri di Mubarak poi inviso a Mubarak, leader della Lega araba, amato dalle masse per essere anti-israeliano avrebbe le qualità diplomatiche per salvaguardare il trattato di pace.
Gli altri due candidati forti sono islamici: Abdel Moneim Aboul Fotouh, capo del sindacato dei medici, già ai vertici della Fratellanza e poi cacciato per troppo riformismo; e Mohammed Morsi, il leader di Giustizia e Libertà, la versione partitica della Fratellanza. Il primo è estroverso e molto amato dalla gente; il secondo piuttosto grigio, è più un teologo che un politico. Avendo sostituito all'ultimo momento al-Shater, gli egiziani chiamano Morsi «pezzo di ricambio». Quello che conta, più dei due caratteri, è che Faruk Sultan, bocciando e promuovendo, è riuscito a dividere gli islamici.
Gli ultimi due candidati con qualche grado di possibilità rappresentano diverse forme di passato. Il primo remoto, col nasseriano Hamdeen Sabahi, intellettuale integerrimo che vorrebbe riportare l'Egitto alla guida di un panarabismo che non esiste più; il secondo, Ahmed Shafik, è l'ultimo primo ministro nominato da Mubarak quando la piazza già assediava il palazzo.
Due cose mancano a queste elezioni. Sondaggi sufficientemente scientifici che possano far capire chi è in testa e chi no, e l'aspetto economico. La gente chiede riforme economiche, la crisi pesa ma nessuno sa esattamente come uscirne: non i candidati che a fatica hanno saputo dire qualcosa di più degli slogan, non i militari che governano il Paese da un anno e mezzo e nemmeno la gente divisa fra le certezze dei sussidi e i rischi del libero mercato. Per quanto manchino i sondaggi, le prime vittime dell'assenza di riforme economiche sembrano i Fratelli musulmani: in realtà non sono loro che governano - continuano a farlo i militari - ma per l'opinione pubblica hanno vinto le elezioni parlamentari del passato inverno, dunque avrebbero dovuto fare qualcosa. Le presidenziali di oggi e soprattutto il ballottaggio successivo chiuderanno una fase. Ma un'altra non meno caotica si aprirà subito dopo.
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