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Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2012 alle ore 16:12.
All'improvviso, è come se avessimo scoperto di essere tutti giapponesi. Se anche le zone della penisola in cui la memoria dei terremoti si era persa nei secoli vengono sconvolte da un sisma devastatore - con uno sciame che continua a scuotere la terra - ecco che la percezione collettiva di relativa sicurezza rispetto ad altre aree del pianeta si trasforma nel suo contrario: la consapevolezza di essere costretti a convivere con il rischio permanente dei terremoti, senza eccezioni territoriali.
In realtà, eravamo in uno stato di "denial" contro tutte le evidenze. In tanti, davanti alle immagini terrificanti del marzo dell'anno scorso provenienti dal Giappone, abbiamo pensato: è la forza terribile dell'Oceano - che solo per un caso Magellano chiamò Pacifico - , meno male che siamo nel Mediterraneo. Falso: uno tsunami simile l'abbiamo avuto anche noi, l'altro ieri per i tempi geologici, ossia nel 1908 in seguito al terremoto di Messina. Solo che si chiamava maremoto, dal nostrano latino. Non resta quindi che cercare di imparare dai giapponesi come si affronta la convivenza con una terra che può sempre tremare, da un momento all'altro. Il vero problema è che partiamo da una posizione molto peggiore.
Quanto vediamo in tv le immagini di un sisma nel Sol levante, tendiamo ad ammirare il coraggio con cui a Tokyo e dintorni la gente non si fa prendere dal panico. Giusto, ma non è che tutti loro abbiamo uno spirito da "kamikaze": ad attutire la paura c'è la sostanziale fiducia nel fatto che gli edifici siano costruiti secondo le severe normative antisismiche. Non che l'industria delle costruzioni nipponica non sia corrotta. Solo che la "corruzione", dal quelle parti, si manifesta nella tendenza ad accordi di cartello, non nel risparmiare sul cemento. Qualche tempo fa, scoppio' un violento scandalo nazionale proprio perché una impresa costruttrice non aveva seguito del tutto i criteri anti-sismici: la vasta eco del caso finiva per dimostrare la rarità di un simile evento.
Purtroppo la tipologia edilizia italiana è opposta a quella del Giappone, dove la maggior parte degli edifici viene abbattuta e ricostruita più o meno ogni 40 anni. In più, non siamo quasi mai in grado di fidarci delle mura che ci circondano. Una chiesa del ‘500 può risultare solo lesionata e, accanto ad essa, una casa dello studente edificata pochi anni prima (come è successo all'Aquila) crollare completamente con esiti assassini. Un luogo di lavoro, in Giappone, è percepito sempre come sicuro da chi vi opera: tutto il contrario di certi capannoni industriali dall'apparenza massiccia. Così, quando la terra trema, è molto più facile essere e sembrare coraggiosi da quelle parti che non in Italia.
A maggior ragione, abbiamo bisogno di "copiare" il Giappone. Anzitutto con una educazione di massa - fin dall'infanzia e poi permanente - su come reagire all'emergenza terremoto. Poi con esercitazioni periodiche di simulazione dell'emergenza, a partire dall'istituzione di una giornata ogni anno che coinvolga milioni di persone. In Giappone lo si fa ogni primo settembre, anniversario del Grande Terremoto del Kanto che distrusse Tokyo e Yokohama 89 anni fa causando oltre 100mila morti. Va ripensata l'organizzazione della protezione civile non solo attraverso un upgrading delle sue strutture, ma predisponendo in modo capillare sul territorio centri di evacuazione e accoglienza di cui tutti siano a conoscenza. Vanno infine sfruttate tutte le possibilità offerte dalle tecnologie: a Tokyo non solo le famiglie hanno kit di emergenza in un angolo dell'abitazione, ma è normalissima l'applicazione dello smarthphone che ti invia l'allerta terremoto in tempo reale, spesso poco prima che accada (e che ti dà tempestive informazioni successive). E' tempo, insomma, di una rivoluzione culturale. Che non ha niente a che fare con la nostra tradizionale e miserabile "cultura dell'emergenza".
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