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Questo articolo è stato pubblicato il 01 giugno 2012 alle ore 06:38.

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La crisi siriana giorno dopo giorno esce dalla primavera araba ed entra nella gelida stagione di una nuova guerra fredda "allargata" tra Est e Ovest, che contrappone la Russia agli Stati Uniti, insieme agli alleati arabi, turchi e occidentali di Washington.
Gli eventi spaventosi di Houla dividono anche l'opposizione del Free Syrian Army: il portavoce delle brigate operative, colonnello Qaasem Saadaddin, ha annunciato, con un ultimatum che scade oggi, che la guerriglia si prepara a rompere la tregua smentendo clamorosamente il comando in Turchia. Anche questo era prevedibile che accadesse: l'opposizione all'estero sul campo conta assai poco.
Damasco, come è chiaro da tempo, è una "linea rossa" della presenza di Mosca in Medio Oriente, fa parte del suo sistema di sicurezza e rientra nella partita strategica degli equilibri di potenza che vanno dal Mediterraneo al Caucaso all'Asia centrale. Non soltanto Vladimir Putin, da oggi in missione a Berlino e Parigi, non vuole fare favori alla campagna elettorale di Obama ma intende negoziare a tutto campo la questione dei missili e lo scudo Nato piazzato in Turchia, diretto verso l'Iran e le basi russe nel Mar Nero.
Il segretario di Stato americano Hillary Clinton, ieri in Danimarca, è partita all'attacco di Mosca affermando: «I russi mi dicono di non volere una guerra civile ma ho risposto che la loro politica contribuirà allo scoppio di un conflitto». Precisando di aver avuto un colloquio con l'inviato dell'Onu in Siria, Kofi Annan, ha aggiunto: «Dobbiamo portare i russi dalla nostra parte perché in rischi sono spaventosi. Il massacro di innocenti da parte del regime, e sempre di più anche da parte dell'opposizione, potrebbe travolgere un Paese lacerato da divisioni settarie e provocare un intervento di altri Paesi della regione». Un riferimento evidente del segretario di Stato all'Iran sciita, padrino degli alawiti di Assad da più di 30 anni.
Immediata la risposta russa alla Clinton: «La nostra posizione è ben nota, è equilibrata, coerente e assolutamente logica: affermare che possa cambiare sotto le pressioni di chicchessia non è corretto», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov.
La guerra Est-Ovest rimane fredda perché, mentre si profilano nuove sanzioni europee alla Siria, un intervento militare per il momento è escluso. Lo ha dichiarato il portavoce dell'Ue, Michael Mann, ribadendo il sostegno al piano Annan, e anche l'inviato Usa alla Nato Ivo Daalder: «Per intervenire - ha detto - occorre un mandato dell'Onu», dove regolarmente Mosca e Pechino mettono il veto a ogni risoluzione del genere. Ma la stessa Clinton, dopo avere detto che «tutte le opzioni sono sul tavolo», parlando in una scuola danese ha espresso molti dubbi su un'azione militare, ripetendo una formula che sanno a memoria anche gli studenti più distratti: «La Siria non è la Libia».
Ascoltiamo ogni giorno posizioni stranote, anche se con alcune sfumature. Mentre il presidente francese François Hollande aveva dichiarato di volere convincere Putin «che non è possibile lasciare che Bashar Assad massacri il suo popolo», il cancelliere Angela Merkel ha ammesso che all'Onu la Russia ha collaborato «in maniera costruttiva»: con Putin alle porte, leader di una potenza strategica per l'economia tedesca, non era il caso di sbilanciarsi. La Germania di avventure militari nel Mediterraneo non ne vuole sapere come ha dimostrato anche il caso della Libia, salvo poi presentarsi lestamente a Tripoli e sui mercati nordafricani a fare affari.
L'asse Mosca-Damasco per ora non mostra crepe, nonostante il segretario generale dell'Onu respinga «la teoria che in Siria non ci sia uno scontro Est-Ovest»: il volume degli scambi bilaterali è aumentato in un anno del 58%, forse questa impennata, come l'arrivo di nuovi carichi d'armi russe a Tartous, per l'ineffabile Ban Ki-moon è un segnale di disimpegno.
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