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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2012 alle ore 06:43.

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Niente è per sempre. Non il benessere né la democrazia nè la pace. Men che meno l'euro e l'Europa.
Anche se spesso si tende a dimenticarlo dando per eterni principi e realtà acquisiti nel nostro quotidiano, niente è per sempre, a meno che non si vogliano davvero difendere le conquiste fatte e si sia disposti a battersi per non perderle.
Per la prima volta nei suoi 60 anni di success-story, l'Europa si trova davanti a un bivio mortale: se sbaglia strada, finirà per sfracellarsi. Sarà il suicidio collettivo di un progetto di integrazione grandioso e rivoluzionario, esemplare per molti nel mondo, soprattutto indispensabile per cavalcare da vincente la globalizzazione economica, finanziaria e politica.
Nessuno oggi può permettersi il lusso di affondare l'euro e l'Europa e illudersi di uscirne indenne. Nemmeno la grande Germania, la più globalizzata tra i Paesi europei, che però continua a dirigere nell'Unione quasi il 70% del suo export e a detenervi il grosso dei suoi 6mila miliardi di assets esteri.
C'è meno di un mese per salvare la moneta unica, per trasformarne la crisi infinita e sempre più insostenibile da trampolino sul disastro a piattaforma per un grande balzo in avanti, verso l'unione di bilancio, l'unione bancaria e quella politica. In breve verso gli Stati Uniti d'Europa. Non sarebbe la prima volta che, deperita e con un piede nell'abisso, l'Unione ritrova la forza di ripartire. Succederà ancora?
Un manifesto per gli Stati Uniti d'Europa: in questi 23 giorni che ci separano dal vertice europeo di Bruxelles di fine mese, il nostro giornale torna alla carica, sulla scia del Manifesto per l'Europa del primo novembre scorso, con una serie di interventi, tra gli altri di grandi europeisti e uomini d'azione come il tedesco Helmut Schmidt, il francese Jacques Delors, l'italiano Carlo Azeglio Ciampi, per capire e far capire l'entità della posta in gioco: tutto da perdere, niente da guadagnare dalle marce a ritroso, da prepotenze e arroccamenti nazionalistici, dalle derive protezionistiche, insomma dalla scomposizione più o meno deliberata del mosaico europeo.
Il tempo stringe. Superato lo snodo del referendum irlandese per la ratifica del fiscal compact, la corsa ad ostacoli passa domenica per le legislative francesi.
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Queste elezioni diranno se la Francia di François Hollande sarà socialista a tutto tondo o costretta alla coabitazione, cioè molto più fragile come interlocutore europeo nel difficile dialogo con la Germania di Angela Merkel. Una settimana dopo il voto in Grecia si saprà se il Paese sceglierà l'euro e i sacrifici oppure se preferirà uscirne.
Nel mezzo il calvario della Spagna di Mariano Rajoy, stretta tra il pesante risanamento dei conti pubblici e una crisi bancaria che, come è accaduto un anno e mezzo fa all'Irlanda, quasi certamente la costringerà a chiedere gli aiuti europei con diktat relativi. Il tutto in attesa del vertice Ue del 28-29 giugno: nella speranza di molti dovrebbe segnare il punto di svolta della crisi ma, con i chiari di luna di questi giorni, potrebbe anche rivelarsi il 25° flop di una serie allarmante nella sua testarda inconcludenza che moltiplica i costi collettivi dell'incertezza, dell'irresponsabilità politica continuata. Sul tavolo, ci sono progetti ambiziosi ma per ora poco di concreto per uscire dall'emergenza crescita. Si discute di unione di bilancio, cioè di ulteriore rinuncia alle relative sovranità nazionali, e di unione bancaria, cioè di centralizzazione della sorveglianza, garanzia unica per i depositi e possibile accesso diretto ai fondi Esm da parte degli istituti di credito. In altre parole, delle basi per far compiere un nuovo salto di qualità all'integrazione europea.
Qui sta il punto: per quale Europa? Quella equilibrata e solidale delle origini, cui sarebbe facile delegare nuovi poteri, o quella del più forte che impera oggi? Nel 1946 Winston Churchill denunciava la cortina di ferro che stava calando sul continente europeo diviso in due blocchi. Oggi l'Europa riunificata ha quella cortina dentro casa: è la cortina della sfiducia, dell'incomunicabilità reciproca. La grande Germania, dice Schmidt, sta perdendo il senso della storia, del suo riscatto europeo e della solidarietà con i partner.
Ormai guarda con beata indifferenza a sacrifici e risentimento dei greci, all'orgoglio ferito degli spagnoli in difficoltà, al sofferto sì degli irlandesi non per convinzione ma per paura di perdere i fondi Ue. Segue con fastidio, osservandole dall'alto in basso, le manovre della nuova Francia e dell'Italia per rimettere in moto la crescita europea. Per tenere insieme l'euro Berlino è disposta a fare il meno possibile, al minor costo, il più tardi possibile e proprio se costretta dai mercati. Nell'attesa, lucra allegramente sui guai altrui finanziandosi gratis sui mercati e facendo shopping europeo a prezzi di saldo. Se non cambia, questa Europa a una dimensione, tutta e solo tedesca, è destinata al collasso. Politico, economico, democratico. Alle rivolte popolari. C'è meno di un mese per convincere la Merkel ad ascoltare anche le ragioni altrui, a ritrovare un po' di spirito europeo, una visione strategica del futuro. In breve, a evitare di far del male a sé e agli altri.
Adriana Cerretelli
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