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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2012 alle ore 06:37.
LONDRA. Dal nostro corrispondente
«La prossima crisi europea scoppierà qui, travolgendo le relazioni con i partner oltre la Manica». Howard Davies, già rettore della London school of economics, da tempo si duole d'essere Cassandra, preoccupato com'è per i destini britannici nel consesso comune. In realtà il suo è facile presagio, essendo scolpito nel presente da alcuni fatti e da molti indizi.
Se l'Europa farà quanto è necessario per salvare l'euro sancirà, in quello stesso momento, con quelle stesse azioni, il distacco di Londra, seppure con modalità e tempi da definire. Lo scarto sul fiscal compact ha segnato un nuovo smarcamento della Gran Bretagna dal corso dell'Unione, ma in quell'occasione, almeno, Downing street frenava, negoziava, tentava la mediazione. Ora no. Tifa Europa ed euro con una passione mai vista. Ieri il premier David Cameron ha spinto per gli eurobond, per l'unione bancaria, in ultima istanza per una più stretta unione politica. Ha solcato la via da seguire per salvare l'euro. La via che seguiranno gli altri, non Londra e non solo perché è fuori dall'Eurozona, abbarbicata, per ora felicemente, alla sterlina.
Lo ha fatto con abilità. Da tempo spiega al mondo che le responsabilità non si possono addossare alla sola signora Merkel, per poi ricordare al Cancelliere che quanto chiedono francesi, italiani, spagnoli è la ricetta per la salvezza della moneta comune. Ovvero per la salvezza dell'economia inglese che uscirebbe ferita come quelle continentali dalla dissoluzione dell'euro. Così, mentre incoraggia gli altri ad agire, Londra, alza le barricate per proteggere sé stessa. Ultimo esempio la sortita del Cancelliere dello Scacchiere George Osborne che, mentre David Cameron tesseva le lodi per l'unione bancaria, annunciava l'intenzione di chiedere esplicite clausole di salvaguardia per gli istituti di credito britannici.
Fatti, dicevamo, che svelano l'accelerato abbrivio britannico da Bruxelles, come se d'improvviso l'equivoco di Londra fosse giunto al passaggio finale. Cadono i veli e il re si ritrova nudo, con il suo sogno di un'Europa del commercio che minaccia di esplodere o di mutare in un super stato federale da cui si chiama fuori. Lo ricorda in un libro Lord Owen, già ministro degli Esteri laburista. Chiede un referendum popolare per decidere se stare o meno nella Ue o aderire a una lassa associazione di libero scambio. La consultazione popolare ora non si farà, ma diverrebbe ineludibile, per legge dello stato, qualora Bruxelles chiedesse nuovi poteri delegati. E la risposta, dicono i sondaggi, sarebbe un no. Così se gli altri si uniranno, Londra s'allontanerà rotolando magari verso un destino da SuperSvizzera come è già stato immaginato.
Quello scenario è più vicino, dopo i fatti lo suggeriscono gli indizi. Mai come in questi mesi lo spirito di patria scuote i sentimenti. Lo si è visto anche per il Giubileo di Elisabetta II. Il Paese si è stretto alla sovrana con straordinario entusiasmo, spettacolo di granitica compattezza trasversale a tutte le classi, festa d'orgoglio nazionale. Inglese forse più che britannica come ha colto il leader dell'opposizione Ed Miliband, autore di un'accorata difesa dell'englishness, troppo spesso, a suo avviso, stemperata nella britishness.
E questo, crediamo, potrebbe essere il passaggio più delicato della crisi che verrà. Se l'Unione si stringerà in un più compatto corpo politico, se Londra opterà davvero per l'allontanamento dalla Ue, la Scozia, europeista, sarà spinta a votare per il distacco dall'Inghilterra, sancendo la sepoltura del Regno Unito. Il referendum per la secessione chiesto da Edimburgo si farà nel 2014. C'è tempo? Appunto, poco tempo.
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