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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2012 alle ore 14:57.

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Le indecisioni di Berlino pesano sul conto finaleLe indecisioni di Berlino pesano sul conto finale

Se il cancelliere tedesco, Angela Merkel, avesse dato retta al premier greco, George Papandreou, che nel gennaio 2010 al vertice di Davos gli chiese con estrema saggezza un prestito-ponte di soli dieci miliardi di euro con l'assistenza dell'allora direttore del Fmi, Dominique Strauss-Kahn, ricevendone un clamoroso rifiuto, Atene non sarebbe stata costretta a chiedere aiuti a Ue e Fondo monetario appena pochi mesi dopo, il 2 maggio 2010 per la cifra di 110 miliardi di euro. La Merkel guardava soprattutto al risultato delle elezioni regionali che costellano la vita politica tedesca, trascurando di risolvere un focolaio greco che, se spento subito, non avrebbe contagiato l'Irlanda, il Portogallo fino poi a lambire la Spagna, la quarta economia del Continente.

I calcoli del cancelliere Merkel, che preferì puntare sulle esigenze della politica interna trascurando una rapida soluzione della crisi del debito sovrano dei periferici, hanno ingigantito nel tempo il problema fino a farlo diventare una valanga che rischia di far cadere l'intera costruzione europea. Ma è proprio questa, secondo alcuni analisti, la strategia tedesca per far passare la loro idea di austerità.
In seguito Atene dovette chiedere un secondo prestito da 130 miliardi di euro di cui 102 a carico della Ue e Efs e 28 miliardi a carico dell'Fmi, senza dimenticare lo swap da 208 miliardi di euro sui bond ellenici con perdita di 100 miliardi di euro per i creditori privati.

Una lentezza nell'affrontare la crisi che ha esasperato i mercati e i greci che dopo cinque anni di recessione domenica prossima vanno al voto dopo appena quaranta giorni. Un voto che è un referendum sull'euro e sull'appartenenza alla moneta unica. Come ricorda Sian Harvinder, economista di Rbs, l'intransigenza tedesca in realtà non è così severa come appare o come vogliono far sembrare alcuni commentatori, ma il passo verso l'unione fiscale e politica europea è una decisione storica simile a quello decisa con la Pace di Westfalia (1648), un trattato che determinò la nascita dei moderni stati nazionali basati sulla sovranità del territorio e sull'assenza di agenti esterni sulle istituzioni interne.

Ora si dovrebbe fare il cammino inverso: dagli stati alla federazione europea. La Germania ne è consapevole e starebbe giocando una partita di lungo termine dove sarebbe pronta a barattare un salvataggio greco e delle banche spagnole in cambio di un'unione fiscale e politica: solo allora accetterebbe gli eurobond, la soluzione definitiva della crisi dei debiti sovrani. L'austerità dei bilanci pubblici sarebbe garantita a livello centrale dall'adozione di meccanismi di controllo come un supercommissario alla fiscalità con poteri maggiori di quanto ne abbia oggi e con qualche forma di controllo parlamentare. Berlino sa che la partita è fondamentale e per questo va con i piedi di piombo. Dietro questa battaglia ci sono le resistenze spagnole che dopo aver firmato il fiscal compact il giorno dopo ne hanno chiesto la deroga, le disfunzioni dell'apparato pubblico italiano, le preferenze per uno stato sociale troppo generoso francese, il cui budget non vede un surplus di bilancio dal 1970. In altre parole Berlino, dopo aver indugiato all'inizio della crisi, ora ha chiaro il disegno dove vuole arrivare. Ma è altresì convinta che per far accettare la nuova architettura europea di un'unione politico-fiscale deve portare la situazione al punto tale dove in discussione sia la stessa esistenza dell'euro. Solo allora gli altri partner accetteranno, obtorto collo, la cessione di sovranità in cambio degli eurobond.

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