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Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2012 alle ore 09:01.

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La lunga marcia dei Fratelli Musulmani verso il potere si arresterà davanti al golpe bianco dei militari? È difficile dirlo in queste ore confuse ma quello che accadrà in Egitto ha buone probabilità di riflettersi sul resto del mondo arabo-musulmano: i gruppi islamici più radicali avranno buon gioco a sostenere che l'avanzata della Fratellanza, dopo avere imboccato molto tempo fa la via democratica, è stata fermata dai generali: la moderazione, diranno, non paga.

Non è la prima volta che accade. Il Fronte islamico di salvezza algerino (Fis), dopo avere vinto il primo turno elettorale, fu fermato da un colpo di stato delle forze armate che nel '92 che annullarono il voto: da quel momento iniziò un'ondata di terrorismo e di violenza che per un decennio trascinò l'Algeria nel baratro degli anni di piombo. Anche in Turchia alla fine degli anni Novanta furono i militari a esautorare governo dell'islamico di Necmettin Erbakan: era il 1997 e il loro pronunciamento, preceduto da tre colpi di stato in 30 anni, venne definito il "golpe bianco" perché fu portato a termine senza carri armati nelle piazze e spargimenti di sangue.

Era la reazione rabbiosa dell'apparato secolarista turco ancorato alla repubblica di Ataturk ma non bastò a fermare la marcia del partito musulmano Akp che sotto la guida di Erdogan è al potere ad Ankara da dieci anni ed è diventato una sorta di modello, più o meno seguito, nel resto del mondo islamico. L'ascesa della Fratellanza dura da più di mezzo secolo: i Fratelli Musulmani sono, soprattutto, un movimento pragmatico. Il loro obiettivo è quello di raggiungere il potere con metodi democratici, come le elezioni, e quindi di lavorare dentro le istituzioni per ottenere un sistema islamico moderno basato sulla tradizione coranica: sono dei conservatori nei costumi ma attenti alle richieste della base costituita da larghi strati giovanili ma anche da una media borghesia di musulmani devoti che stanno scalando la società prendendo il posto delle vecchie élite occidentalizzate.

In Egitto sono la forza determinante e più controversa, in Tunisia con Ennhada si sono insediati al governo, nella Siria insanguinata di Bashar Assad rappresentano, da sempre, una delle maggiori forze di opposizione. Nel regno alauita del Marocco, una di quelle monarchie che sembravano immutabili, si è affermato il partito musulmano moderato di Giustizia e Sviluppo. In Libia, dove si preparano, nel caos, le prime lezioni libere della storia, i movimenti islamici e i Fratelli Musulmani appaiono le formazioni politiche più organizzate su base nazionale, con forti appoggi internazionali da parte delle monarchie del Golfo come il Qatar. In Yemen, dopo l'addio al potere di Abdallah Saleh, i Fratelli del partito Islah sono in primo piano: una loro attivista storica Twakkul Karman è stata anche premiata con il Nobel per la pace.

Il fatto è che se le elezioni non bastano per arrivare al potere i partiti musulmani potrebbero ulteriormente frammentarsi e i radicali prevalere sui pragmatici, gli estremisti salafiti sui moderati. Per questo le sentenze della Corte suprema egiziana invece di definire meglio il quadro della legalità potrebbero avere effetti del tutto opposti. Ma questo forse è quello che si augurano nelle stanze segrete del potere: ogni deriva violenta offre il fianco alla repressione e in qualche modo la giustifica. La casta dei militari, impegnata con gli apparati sicurezza in una sanguinosa battaglia contro i gruppi islamici radicali negli anni Ottanta-Novanta, è allenata a questo genere di scenari, abituata com'è a fare leva con cinico opportunismo sulle paure degli egiziani. Questa volta persino gli americani hanno reagito con prontezza ammonendo i militari del Cairo a non fare passi indietro sulla strada della democrazia: la storia si ripete e non sempre per il meglio.

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