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Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2012 alle ore 06:39.

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IL CAIRO - Erano solo in 300 ieri pomeriggio a protestare davanti alla Corte costituzionale, protetta dai militari. Ed erano qualche centinaio di più ieri sera in piazza Tahrir, un tempo mitico campo di battaglia di una rivoluzione. Forse è solo questione di tempo: ma se davvero è arrivata al capolinea, quella rivoluzione era finita molto tempo fa, non ieri.
Ieri comunque "il sistema" ha compiuto un colpo di Stato legale. Non nel senso della legittimità ma perché anziché i carri armati, come si fa nei golpe, sono state usate le leggi: una nebulosa normativa liberamente interpretabile creata dai giudici per conto della giunta militare.

Vince chi detiene il potere. I 18 giudici, 17 dei quali nominati nel vecchio regime, guidati da un presidente appena scelto da quei 17, hanno individuato una violazione nelle elezioni politiche, concluse a gennaio. La norma stabilisce che due terzi dei deputati devono essere eletti con sistema proporzionale per liste di partito. L'altro terzo, maggioritario, su candidature individuali. La Corte ha accertato che sono stati i partiti a determinare l'elezione anche di queste ultime.
Dunque: elezioni illegali e un terzo di deputati illegali. Per conseguenza logica, tutto il Parlamento è illegale e sciolto. Si rivota probabilmente a novembre. Per completezza d'informazione, come si dice in questi casi, il partito maggioritario nel parlamento disciolto era quello che faceva capo ai Fratelli musulmani.

Ciò che chiarisce l'esistenza di un colpo di Stato per mezzo di leggi, un golpe quasi burocratico, non è quello che la Corte ha stabilito ma che ha ignorato. Ha dissolto il Parlamento, dominato dagli islamisti, ma permesso che Ahmed Shafik, candidato del vecchio regime, partecipi al ballottaggio presidenziale di sabato e domenica. Il Parlamento aveva approvato una legge secondo cui chi aveva avuto incarichi nel vecchio regime non poteva concorrere per quello nuovo. Shafik è stato ministro e premier per Mubarak. Ma il Parlamento ora è sciolto, la sua illegalità si estende alle norme che ha votato e ai comitati eletti, come quello incaricato di scrivere la nuova Costituzione. Le leggi, dunque, restano quelle della transizione, nella loro nebulosa: le applica chi ha il potere.

Quello stesso che un paio di giorni fa aveva annullato lo stato d'emergenza, sostituendolo subito dopo con una norma più "umanitaria": il diritto dell'esercito di arrestare chiunque, anche in casa sua. Ma lo spiegamento di forze davanti alla Corte costituzionale e lo stato d'emergenza reimposto con un altro nome sono forse inutili. La rivoluzione è stanca e non si riconosce in nessuno dei due candidati presidenziali: certamente non in Shafik che poco più di un anno fa piazza Tahrir aveva costretto a dimettersi con Mubarak. Ma neanche in Mohamed Morsi, candidato dei Fratelli musulmani. La grande maggioranza del resto d'Egitto - la sinistra, i laici, i moderati, i giovani, i blogger - detesta gli islamisti quanto il vecchio regime. Non voterebbero mai per loro. Morsi denuncia le «leggi particolari per gente particolare». Ma suscita solo l'indignazione dei suoi, convocati ieri sera per decidere come reagire.
Qualcuno propone di ritirarsi dal ballottaggio e lasciare Shafik vincere da solo. Il golpe sarebbe più evidente ma con l'aria che tira Shafik diventerebbe presidente: senza un Parlamento che lo controlli ma con i militari che lo proteggono. Resta un'ultima ipotesi. Che la Fratellanza convinca tutte le opposizioni divise a formare un fronte unito. Ma, appunto, la rivoluzione è stanca. I 300 irriducibili del presidio di piazza Tahrir aspetteranno inutilmente l'arrivo di quel popolo che solo 16 mesi fa credeva di aver cambiato l'Egitto.

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