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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2012 alle ore 06:38.

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Una massa di risorse che fa gola ormai ovunque. La rinazionalizzazione di Ypf, la grande azienda energetica argentina controllata fino al 5 maggio scorso dalla spagnola Repsol, ufficialmente giustificata con la mancanza d'investimenti adeguati, può infatti essere interpretata come la volontà di rimettere le mani sul formidabile tesoro di shale gas contenuto nella Patagonia. Il nuovo amministratore delegato di Ypf, Miguel Galluccio, ha subito annunciato l'avvio di massicce perforazioni: secondo Repsol, serviranno 25 miliardi di dollari l'anno per lo sfruttamento adeguato di tali risorse.
Due tra i più forti consumatori di gas attuali (Usa, con 683 miliardi di metri cubi nel 2010) e futuri (Cina, con 390 miliardi nel 2030) sono anche i maggiori detentori di riserve non convenzionali. E anche quelle di Messico, Canada e Argentina, quando saranno sviluppate, verranno facilmente consumate in loco o in regioni limitrofe. Gli scambi su lunghe distanze saranno quindi ridotti, limitando la necessità di pipeline, metaniere, gassificatori e rigassificatori, con l'effetto di limitare a fondo il mercato, ma di contenere nel contempo i costi.
La vera preoccupazione dell'Iea sono però i possibili effetti all'eco-sistema che le tecniche estrattive possono produrre. Lo studio sottolinea la necessità d'informare sempre e comunque chi vive nei territori coinvolti nelle attività estrattive, di controllare costantemente l'enorme volume di acque utilizzate secondo indicatori concordati, di minimizzare la quantità di terreno sottratta agli usi civili e di monitorare con attenzione gli effetti del "fracking" su eventuali faglie sismiche. In sintesi, la Iea propone di creare una "licenza sociale" per operare in modo corretto nel settore, che dovrebbe creare un aggravio di costi del 7% appena rispetto alle attività finora condotte negli Usa. Un prezzo certamente sopportabile.
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Europa svantaggiata
In Italia scarsi risultati
In fatto di shale gas l'Europa è nettamente sfavorita rispetto al resto del mondo: le sue riserve ammontano a circa l'8,5% del totale mondiale, pari a 15.950 miliardi di metri cubi. La loro distribuzione, a parte i due picchi di Polonia e Francia (5.300 e 5.100 miliardi di metri cubi rispettivamente), è polverizzata su molti Paesi: Norvegia (2.350 miliardi), Ucraina (1.190), Svezia (1.160), Danimarca (650), Gran Bretagna (560), Olanda (480), Germania (220) e Lituania (110). Ma anche chi si è creduto ricco non ha solide certezze. Le riserve della Polonia, che da un paio d'anni ha avviato intense attività di ricerca, con 109 licenze concesse a ConocoPhillips, Exxon, Chevron, Talisman, Marathon, Lane, Eni e Sorgenia (oltre che alle nazionali PgNiG, Pge, Tauron e Kghm), si stanno mostrando assai più ridotte dello sperato. «Dei primi 20 pozzi perforati, quasi tutti si sono rivelati deludenti», ammetteva una nota di Fitch il 21 marso scorso. Lo stesso giorno l'Istituto geologico di Varsavia abbatteva a 1.900 miliardi le riserve stimate e prospettava un ulteriore taglio a un livello compreso tra 346 e 768 miliardi.
E l'Italia? Il nostro Paese è pressoché privo di shale gas. Solo una società australiana, la European Gas Limited, sta operando su tre concessioni nella Toscana centro-meridionale, ma finora con risultati non incoraggianti. (P. Mi.)
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