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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2012 alle ore 06:38.

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IL CAIRO. Dal nostro inviato
C'è stato uno scontro ieri in piazza Tahrir, che le cronache non hanno registrato. È durato tutta la giornata ma non ci sono state vittime. Non era neanche uno scontro politico ortodosso. Traffico del Cairo contro manifestanti, questa volta i felici sostenitori dei Fratelli musulmani. La folla occupava la sede stradale con le bandiere e le auto premevano, cercando un varco. Gli uni resistevano, gli altri spingevano. Alla fine ha vinto il traffico. I manifestanti si sono ritirati sui marciapiedi.
C'è un Paese che ignora, è stanco e vuole occuparsi d'altro; e uno che continua a mobilitarsi. L'uno e l'altro da ieri vivono insieme in un vuoto politico e temporale. Dopo tanto votare - 12 chiamate alle urne in meno di un anno - non c'è un presidente certo: Mohamed Morsi, candidato islamista, proclama di aver vinto almeno col 52% dei voti; ma Ahmed Shafik, l'avversario ex generale, non ammette la sconfitta. Al contrario, dichiara vittoria con le stesse percentuali. Nessuno, dai protagonisti agli osservatori, è in grado di dire se lo spoglio dei voti è davvero terminato o ci si deve aspettare qualche sorpresa. "L'inverno del nostro scontento presidenziale", scriveva ieri un giornale, parafrasando il Riccardo III.
Oltre all'assenza del presidente - averne due, pretenziosi, è peggio che non averne alcuno - gli egiziani scontano la scomparsa del Parlamento. Lo avevano votato entusiasti in tre turni geografici con tre ballottaggi. Impegno e partecipazione inutili: con una sentenza, la settimana scorsa la Corte costituzionale lo ha invalidato e chiuso. Di conseguenza è decaduta anche la Commissione che il Parlamento aveva nominato per la seconda volta, entrambe inutilmente, per scrivere le nuove regole. Dietro la decisione della Corte c'è la volontà dei militari.
Ma, sorpresa delle sorprese, anche i militari annunciano un passo indietro. Mentre Morsi e Shafik si rubavano i consensi, il generale Mohamed el-Assar si è presentato davanti a un cespuglio di microfoni televisivi. Assar è uno dei membri dello Scaf, la giunta militare che da piazza Tahrir governa piuttosto unilateralmente la transizione. Come promesso da tempo, annuncia il generale, lo Scaf cederà i poteri il 30 giugno. Ci sarà una cerimonia che «tutto il mondo potrà seguire».
Il potere a chi? Sembra al presidente: per il 30 dovrebbe essercene uno. Ma la sera prima, dopo aver atteso la chiusura dei seggi, sempre lo Scaf aveva diramato una "dichiarazione costituzionale", una specie di ordine di servizio alla nazione come si fa nelle caserme, per ridurre al minimo i poteri presidenziali ed espandere i suoi. Mentre il generale Assar faceva il curioso annuncio, in prima pagina i giornali pubblicavano un programma di lavoro piuttosto impegnativo per chi sta per ritirarsi in guarnigione: poteri legislativi allo Scaf (che ieri ha tra l'altro adottato un decreto per la formazione di un consiglio nazionale di difesa composto dal capo di stato maggiore delle forze armate e da nove comandanti interforze), controllo del bilancio militare e nazionale, diritto di dichiarare guerra, esclusione del presidente dalle materie di difesa e sicurezza nazionale. Al capo civile dello Stato saranno dati «i pieni poteri», insistono i militari ma non sembrano più ampi di quelli di un comandante dei vigili urbani. Una portavoce dello Scaf aggiunge che, come per il Parlamento, anche le presidenziali si dovrebbero rifare fra un anno.
Insieme alla Corte costituzionale lo Scaf sceglierà i 100 membri della Commissione che dovrà scrivere la nuova carta fondamentale in tre mesi. Al più tardi a settembre un referendum nazionale (il tredicesimo voto) l'approverà o respingerà. Se sarà il primo caso, si avvierà il processo elettorale (voto numero 14) per il nuovo Parlamento.
Ma il primo di luglio i militari non dovrebbero occuparsene più. Non credendoci, e non si può dare loro torto, le opposizioni hanno proclamato per oggi una giornata di lotta. Anche se nel frattempo il loro candidato fosse confermato presidente, i Fratelli musulmani continuano a sentirsi opposizione e annunciano una «marcia da un milione di uomini». Andranno verso il Parlamento presidiato dai militari. Domani il traffico del Cairo non dovrebbe vincere la sua battaglia. Probabilmente non cercherà nemmeno di combatterla, lasciando campo libero a un'altra giornata egiziana di tensione e incertezza.
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