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Questo articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2012 alle ore 12:13.

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Il rapimento in Argentina di Adolf Eichmann, da parte dei servizi segreti israeliani, e il conseguente, clamoroso processo svolto a Gerusalemme e conclusosi con la condanna a morte dell'imputato (poi eseguita il 31 maggio 1962), segnano una svolta nella rielaborazione della Shoah.
Se tra il 1945 e i primi anni Sessanta, la tragedia immane dello sterminio degli ebrei era stata come sopita dal desiderio di rimarginare le ferite del conflitto mondiale e dai nuovi equilibri della guerra fredda, l'enorme risonanza mediatica che accompagnò il dibattimento in tribunale, permise un salto di qualità nell'opinione pubblica.

Era l'inizio di quel lungo percorso di presa di coscienza collettiva che ha trasformato l'Olocausto in patrimonio della memoria universale del XX secolo. Con l'intervento spregiudicato del Mossad, lo Stato Ebraico volle dare anche un significato politico all'azione, ponendosi come garante postumo delle vittime ebraiche dello sterminio. Pur non avendo una diretta competenza territoriale, Israele rivendicò a sè la punizione dei crimini commessi contro gli ebrei durante la cosiddetta "soluzione finale". Hanna Arendt, filosofa, giornalista e scrittrice nata in Germania da famiglia giudaica e formatasi alla scuola di Martin Heidegger, fu inviata a Gerusalemme dal settimanale americano New Yorker, per dare conto degli sviluppi del processo.
La sua corrispondenza, poi pubblicata in un volume dal titolo "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme" ha fatto storia, ed è divenuta come una delle testimonianze più influenti sulla vicenda.

La Arendt, che conosceva benissimo la società e la cultura tedesca, si concentrò su Eichmann come esempio tipico del comportamento di gran parte dei tedeschi davanti alla persecuzione nazista contro gli ebrei. Secondo la Arendt, infatti, sebbene Eichmann avesse avuto responsabilità molto gravi nell'organizzazione dello sterminio, il suo atteggiamento mentale non si era in fondo discostato da quello dei moltissimi suoi connazionali, impegnati a far funzionare con solerzia la macchina della distruzione, e incapaci di interrogare la propria coscienza o di ammettere l'enormità inumana del nazismo.
Non superuomini del male, ma grigi burocrati della violenza. Questa "banalità del male" che la Arendt colse nella vicenda di Eichmann, è rimasta come una delle scoperte più dolorose della storia del XX secolo.

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