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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2012 alle ore 06:39.

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IL CAIRO. Dal nostro inviato
Erano passate forse due ore da quando il presidente della commissione elettorale, alla fine di una tediosa lettura di minuzie burocratiche, aveva finalmente dato a un Paese in ansia il nome del suo presidente. La folla festeggiava, i botti esplodevano nell'aria. Ma da Talat Arb un corteo di giovani già convergeva verso piazza Tahrir per ottenere giustizia per i martiri: le vittime dimenticate della rivoluzione.
Dal lato del museo egizio un altro gruppo, questa volta di operai, marciava cantando di nuovo slogan a favore dell'aumento dei minimi salariali. Ancora si faceva festa e già i problemi del Paese si riversavano sulla piazza per ottenere soddisfazione dall'uomo subito percepito come re taumaturgo. Non a Tahrir ma negli uffici dei Fratelli musulmani, ora partito di potere, anche gli imprenditori presto busseranno perché si investa, si agevolino crediti e licenze. Gli islamisti ancora non conoscono quali poteri i militari saranno disposti a concedere: molto pochi, presumono. Ma con Mohamed Morsi presidente (51,7%), ora sono dentro il sistema. Per quanto i militari limitino gli spazi, si mette ineluttabilmente in moto una dinamica politica nuova.
È per questo che era apparsa stonata e pericolosa la dichiarazione di Morsi diffusa da un'agenzia di stampa iraniana, Fars: il nuovo Egitto, avrebbe dichiarato, vuole creare un «equilibrio strategico» sviluppando i rapporti con Teheran. Produrre «una pressione nella regione è parte del mio programma», avrebbe detto domenica Morsi, secondo la Fars, poco prima dell'annuncio della sua vittoria. Il nuovo presidente sarebbe arrivato addirittura a a dichiarare di voler rivedere gli accordi di Camp David e il trattato di pace con Israele. Ma il ruolo geo-strategico dell'Egitto è un totem per i militari che dagli americani ricevono un miliardo e mezzo di dollari. Se fossero state confermate, le affermazioni alla Fars avrebbero vanificato il lavoro fatto fino ad ora per vendere degli islamisti un'immagine moderata: quella che Morsi ha in realtà dato domenica sera nel suo primo discorso in Tv, quando ha promesso di rispettare i trattati internazionali firmati dal Cairo. Il "giallo" si è sciolto quando ieri sera un portavoce della presidenza egiziana ha clamorosamente smentito che l'intervista fosse mai avvenuta, chiarendo che «tutto quanto l'agenzia Fars ha pubblicato non ha alcun fondamento». Una manovra dell'Iran sciita, dunque, nella speranza di minare il legame tra i Fratelli musulmani e i sauditi, entrambi sunniti.
Una prova in più della delicatezza del momento in cui nasce la presidenza della fratellanza, in un Medio Oriente estremamente sensibile, preoccupato dalla guerra in Siria, dal destino delle Primavere e dallo scisma permanente fra sunniti e sciiti che potrebbe diventare una corsa al nucleare. Incomincia male anche perché le priorità dell'Egitto sono altre, quelle già presentatesi in piazza Tahrir a rivendicare una soluzione: occupazione, investimenti, progetti necessari per ottenere gli aiuti proposti dal Fondo monetario e quelli più cospicui offerti negli ultimi due vertici del G-20.
L'atmosfera di piazza Tahrir domenica sera era festosa. Ma diversa da quella gioiosamente stupefatta dell'11 febbraio di due anni fa, quando Mubarak sconfitto annunciò le dimissioni. Del fronte delle opposizioni c'erano solo i rappresentanti, non i sostenitori. La vittoria elettorale di un fratello musulmano, anche se con dottorato alla University of Southern California, Los Angeles, su un candidato del vecchio regime, non è un passo esaltante verso la democrazia. Era solo l'unico possibile, al momento, per continuare a credere.
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