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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2012 alle ore 14:11.

Un gruppo di giovani con i fucili mitragliatori scende da un'auto a volto coperto, esplode raffiche in aria, blocca la strada verso Aleppo nel quartiere di Arbil e improvvisa un posto di blocco volante. L'autista terrorizzato inverte la marcia a un centinaio di metri dagli insorti ma i ribelli dopo pochi minuti di questa azione dimostrativa si sono già dileguati prima che arrivino le forze del regime. Svaniti come ombre oltre la barriera del guard-rail, tra l'erba secca e gialla di una campagna urbanizzata da case basse come scatole e vie inesistenti, senza nome. Ieri sera fonti dell'opposizione hanno denunciato un nuovo attacco delle forze del regime contro un corteo funebre, almeno 30 i morti.

Qui a Damasco si combatte, ma a migliaia di chilometri dalla capitale di Bashar Assad, a Ginevra, l'inviato dell'Onu e della Lega Araba Kofi Annan annuncia che è stato raggiunto un accordo, inaspettato e ancora tutto da verificare, per un passaggio di poteri gestito direttamente dal popolo siriano. Si dovrebbe formare un governo di unità nazionale che includerà anche esponenti dell'attuale regime, come voleva la Russia, insieme all'Iran principale alleato di Damasco. La formula è volutamente ambigua e sembra lasciare in sospeso il destino di Assad: «Il suo futuro lo decideranno i siriani», ha detto Annan, mentre il ministro degli Esteri russo Lavrov ha subito sottolineato che l'accordo non implica le sue dimissioni. Manca un cessate il fuoco, il primo punto del piano Annan: negoziare e guerreggiare in Medio Oriente non è così inusuale ma sembra un'arte difficile da praticare in questa situazione.

Nella bollente estate di Damasco adesso è la periferia che assedia la capitale. «Si combatte in tutti i quartieri intorno alla città», ammette un funzionario del ministero dell'Informazione mentre gli apparati di sicurezza scatenano l'offensiva a Douma: viene espugnata con decine di morti, lasciandola senza acqua, cibo e luce. Non soltanto la guerriglia ma anche la popolazione sarà punita, stritolata tra gli insorti e i rastrellamenti delle truppe di Bashar. Douma, 15 chilometri dal centro di Damasco, ha 500mila abitanti, quasi tutti immigrati sunniti dalle campagne dove adesso si nascondono in ritirata i guerriglieri del Free Syrian Army per organizzare agguati. È quella parte nuova della capitale che Bashar Assad dal suo palazzo isolato sulle alture non vede mai e forse non ha mai visto: una linea scura e indistinta che si perde all'orizzonte. La Grande Damasco, sei milioni di abitanti - qualche anno fa erano soltanto uno e mezzo - si espande, divora il territorio e sta tentando di scavare la fossa anche al regime. Questa non è solo la rivolta dei sunniti contro la minoranza alauita al potere ma anche una ribellione sociale, sia pure confusa, aggravata dalle condizioni economiche. Abbandonati i sogni di parità strategica con Israele, al quale Assad padre aveva ceduto il Golan nel '67, con la fine del dirigismo economico e una certa liberalizzazione i problemi invece di attenuarsi sono esplosi: la Siria sconta l'emergenza demografica e ora una crisi perdurante approfondita dall'embargo.

Di quanto succede a Douma, sigillata dalle truppe di Assad, sappiamo poco, non ci sono neppure gli osservatori dell'Onu, consegnati negli alberghi dal loro capo Robert Mood. Il generale norvegese era a Ginevra con Annan alle prese con le posizioni opposte di Usa e Russia. Mosca non accettava una transizione imposta da fuori e che liquidasse Assad e il suo regime.

Il fallimento era nell'aria, lo avvertiva anche Annan con parole tese e preoccupate: «C'è la minaccia di contagio regionale del conflitto, di un nuovo fronte per il terrorismo, la possibilità di precipitare in uno scontro settario in una delle regioni più tormentate al mondo». Perché la guerra di Siria, che si combatte da oltre un anno con 15mila morti, non è un più da un pezzo, se mai lo è stato, un capitolo della primavera araba ma una battaglia geopolitica che coinvolge le grandi potenze e quelle regionali.

Anche i siriani lo sanno, hanno avuto a fianco per decenni i profughi della guerra civile libanese e poi di quella irachena. Avvertono una paura crescente e la borghesia da fuori Damasco affolla gli hotel per sfuggire, o nell'illusione di sfuggire, alla violenza.

L'agenzia aerea di stato è categorica: «Mi spiace ma per una settimana non ci sono posti per Aleppo. Nessuno vuole viaggiare in auto, la strada è troppo pericolosa». Dietro al bancone c'è un ritratto in bianco e nero di Bashar, un'immagine grigia, sfumata, simile a quelle del padre Hafez. Una foto simbolica che avvisa i siriani: fuori non c'è un mondo a colori ma solo la continuità della famiglia Assad. Il grande storico arabo Ibn Khaldun sosteneva che il prestigio delle dinastie mediorientali moriva con la quarta generazione. Gli autocrati arabi di questo inizio di millennio, Saddam Hussein, Ben Ali, Mubarak, non sono arrivati alla seconda, forse anche il tramonto di Bashar non è poi così lontano. «I suoi giorni - ha detto la signora Clinton a Ginevra - sono contati».

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