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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2012 alle ore 08:12.

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«Guerra» è una parola che pesa e che non può essere usata con leggerezza. Di recente l'aveva pronunciata il Centro studi Confindustria, spiegando (tra qualche sopracciglio subito inarcatosi) che «non siamo in guerra ma che i danni economici fin qui provocati dalla crisi sono equivalenti a quelli di un conflitto». Ieri il presidente del Consiglio Mario Monti è andato più in là: l'Italia, ha ammesso, ha intrapreso «un percorso di guerra durissimo».

Di questo in effetti si tratta. Noi l'abbiamo sottolineato più volte e responsabilità esige che si dica agli italiani, in piena trasparenza, ciò che è vero. Nel mondo, sui mercati, in Europa, dentro le sue stesse mura che perimetrano altre guerriglie di resistenza ai cambiamenti, l'Italia combatte una guerra senza esclusioni di colpi.
Otto mesi fa, ai tempi del G-20 di Cannes dove l'allora premier Silvio Berlusconi si specchiò nel suo isolamento (e fin quasi nella sua «umiliazione», ha detto Monti), il Paese fu molto vicino ad alzare bandiera bianca. Poi, grazie al passo indietro della politica e di Berlusconi, arrivò il Governo Monti e il decreto Salva Italia.

Fu evitato il default e "sorpassata" la Spagna che allora era in posizione migliore della nostra, ma la guerra è continuata. Per vincerla abbiamo bisogno che l'Europa (più pronta ad assumere le decisioni anticrisi che le competono e che impattano sui Paesi membri) ne sia convinta e che i mercati a loro volta segnalino a colpi di spread al ribasso che le ostilità sono terminate. Se manca l'una o l'altra condizione, spiace dirlo, non ci sarà vera pace. Né ripresa.

Imperfetta e feroce, la legge dello spread atterra sugli Stati nazionali mettendo a dura prova le stesse regole democratiche e seminando il panico tra le fila attonite della politica e non solo. Per l'Italia è il nuovo "vincolo esterno" con il quale fare i conti: a confronto, l'entrata nell'euro evapora nel ricordo di un'allegra pedalata in pianura. In Spagna è stato appena varato un piano di risparmi da 65 miliardi, il taglio delle tredicesime pubbliche ed un aumento dell'Iva di tre punti.

Ieri il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ha aperto il suo discorso all'assemblea annuale dei banchieri con queste parole: «L'economia è ancora in recessione». Come dire che ci siamo ben dentro (2012 col Pil a -2%, se non di più) e che non bisogna farsi illusioni. Tanto più se la legge dello spread fa un po' il comodo suo: la differenza tra i rendimenti dei titoli pubblici italiani e tedeschi, ha spiegato Visco, è «di gran lunga superiore a quanto sarebbe giustificato dai fondamentali della nostra economia». Ma tant'è, e di questo occorre prendere realisticamente atto cercando di rafforzare la credibilità percepita del Paese in modo da riavvicinare il più possibile i rendimenti ai fondamentali del sistema Italia.

Siamo, appunto, su un percorso di guerra. Il Governatore ha richiamato con forza le banche a fare bene il mestiere che compete loro secondo il basilare principio della "sana e prudente gestione" e facendo ogni sforzo, in un sistema come il nostro "bancocentrico", affinché il credito sia fatto affluire alle imprese e alle famiglie. Non solo. Le politiche dei fidi - ecco il messaggio forte ai banchieri - «devono essere basate sulla solidità dei progetti imprenditoriali, non su relazioni e legami che ne prescindano; stabiliti in fasi di crescita economica e di finanza favorevole, essi non sono oggi più sostenibili». Il colpo di maglio assestato contro le degenerazioni del "capitalismo relazionale" non poteva essere più chiaro e più duro.

A sua volta il premier Monti, in un discorso ad alta tensione politica (nel giorno in cui ha lasciato nelle mani sicure di Vittorio Grilli l'incarico di ministro dell'Economia varando anche una sorta di "gabinetto di guerra" per la politica economica che sarà presieduto dal capo del Governo e al quale potrà essere invitato il Governatore di Bankitalia) ha chiarito alle parti sociali, portatrici di legittimi interessi, i confini del confronto col Governo.

Sotto tiro, in questo riconfermando un'impostazione da "professore" che gli è stata sempre propria, è finito il metodo della "concertazione" a spese dello Stato. L'analisi è stata severissima e lo scontro che ne è seguito con i sindacati di quelli che lascerà comunque un segno. In passato, ha detto Monti, ci sono stati «esercizi profondi di concertazione che hanno generato i mali contro i quali noi combattiamo e a causa dei quali i nostri figli non trovano facilmente lavoro». Insomma, anche in questo caso ciascuno faccia il suo mestiere: con le parti sociali ci si confronta ma poi spetta al Governo (e al Parlamento) decidere nell'interesse generale senza scaricare i debiti sulle generazioni future.

Si dirà che il premier si è infilato l'elmetto, qualcuno farà riferimento al "soldato" Monti, qualcun altro richiamerà il film "Il discorso del Re", in cui il premio Oscar Colin Firth interpreta magnificamente re Giorgio VI che si rivolge al Regno Unito nel 1939. Sta di fatto che Monti ha parlato di «percorso di guerra durissimo». In Italia e in Europa, luglio 2012.

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