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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2012 alle ore 08:05.

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ROMA - Un conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Consulta nei confronti della Procura di Palermo: Giorgio Napolitano passa alle vie di fatto, per fare chiarezza su una vicenda diventata terreno non solo di strumentalizzazioni contro la sua persona ma soprattutto di violazione della Costituzione. Il filone è quello della trattativa Stato-mafia (vedi articolo in basso), ma la lesione delle prerogative del Colle sta in quelle intercettazioni indirette che lo vedono coinvolto e che la Procura di Palermo ha gestito contro le norme costituzionali. È su questo punto che il Quirinale ha scelto lo scontro pur di non transigere rispetto alla tutela dello Stato di diritto e del rispetto della Costituzione che bilancia i diversi poteri dello Stato. Una decisione nata soprattutto per non dare spazio a un precedente pericoloso per la vita repubblicana. E infatti nel suo comunicato le ragioni del suo gesto sono spiegate in termini di articoli e norme di legge ma anche citando le parole di Luigi Einaudi: «Affinché non trasmetta al mio successore alcuna incrinatura nelle facoltà che la Costituzione attribuisce al capo dello Stato». Perché il punto è anche questo: il braccio di ferro dei magistrati arriva alla fine del suo settennato e avallare un precedente vorrebbe dire consentire la lesione del ruolo del presidente della Repubblica, non solo per lui che lo incarna oggi ma per chi lo rivestirà dopo il maggio 2013.

Ecco, il punto chiave del comunicato: «Giorgio Napolitano ha affidato all'Avvocato Generale dello Stato l'incarico di rappresentare la Presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato; decisioni che il presidente ha considerato, anche se riferite a intercettazioni indirette, lesive di prerogative attribuitegli dalla Costituzione». Al comunicato si accompagna il decreto con cui il Colle ha promosso il conflitto di attribuzione in cui chiarisce come e perché le intercettazioni indirette, «non possono essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte». E, dunque, si cita l'art. 90 della Costituzione e la legge 5 giugno 1989, n. 219: «Salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione e secondo il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento di accusa, le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il presidente della Repubblica, ancorché indirette od occasionali, sono da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione».

E questo è un altro passaggio cruciale perché secondo il Quirinale le intercettazioni non sono state ancora distrutte e quindi le «prerogative del Capo dello Stato sono state già lese dai pm di Palermo con la valutazione dell'irrilevanza delle intercettazioni e la loro permanenza agli atti dell'inchiesta». Dunque, anziché chiedere immediatamente al gip la distruzione delle intercettazioni di Napolitano, «i Pm intendono sottoporle ai difensori ai fini del loro ascolto e, dopo il contraddittorio, rimetterle alla valutazione del giudice». E così ieri mattina è arrivata la scelta – che non è stata improvvisa ma è seguita a vari interventi – di diradare un polverone mediatico e chiedere il rispetto della Costituzione. Rispetto che finora non c'era stato e, dunque, lo si cerca secondo le vie della Costituzione.

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