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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2012 alle ore 08:05.

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ROMA - Il conflitto istituzionale ha raggiunto il livello massimo. E non è detto che sia già stato raggiunto l'apice. Del numero dei soggetti coinvolti o presenti sulla scena ormai si è perso il conto. Presidente della Repubblica, procura di Palermo, da ieri anche la Corte Costituzionale che dovrà dirimere il conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale contro i pubblici ministeri siciliani, che non avrebbero avuto titolo neanche a valutare, né tantomeno ad ascoltare, le telefonate di Giorgio Napolitano. Ma nel dossier ogni giorno più voluminoso sul presunto patto Stato-mafia ci sono anche anche molti «ex» eccellenti: ex presidenti della Repubblica e del Consiglio, ex ministri dell'Interno e di Grazia e Giustizia,, ex generali dei carabinieri, ex capi della polizia, ex agenti dei servizi segreti. Riavvolgere il film di un'inchiesta che ieri ha visto una delle scene più impressionanti significa, però, restringere via via il campo. Per ritornare al punto in cui sembrava che questa - ancora per molti aspetti misteriosa - trattativa tra le istituzioni e Cosa nostra fosse un patto oscuro e contraddittorio, ma anche limitato, tra investigatori e criminali. Sembra, invece, che ci sia molto di più. Lo scenario investigativo si allarga ogni giorno: il lavoro della procura di Palermo è infaticabile, ostinato, privo di timori reverenziali.

Se c'è stato a ridosso degli attentati a Falcone e Borsellino un accordo, per quanto tacito, tra le istituzioni e Cosa Nostra - è la tesi di fondo degli inquirenti - va disvelato fino in fondo. Anche a costo di scoperchiare verità forse dal valore più storico che penale. L'innesco del punto di massima crisi istituzionale, ma anche l'acme ufficiale di un'indagine che ha fatto molta strada – e non è escluso che non debba farne altrettanta - riguarda le telefonate tra l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza, e il consigliere per gli Affari dell'amministrazione della giustizia della presidenza della Repubblica, Loris D'Ambrosio.

Mancino chiedeva un intervento per assicurare il coordinamento delle indagini poiché sugli stessi fatti, a suo giudizio, indagano vari uffici giudiziari: Palermo, Caltanissetta e Firenze. Le intercettazioni delle telefonate tra Mancino e D'Ambrosio sono finite sui giornali non per fuga di notizie ma perché depositate dai pubblici ministeri e dunque disponibili per i legali di parte. Uno dei misteri sui quali si indaga, per esempio, è il motivo per cui Mancino sostituì Enzo Scotti al Viminale il 28 giugno 1992, poco più di un mese da quel 23 maggio in cui si verificò la strage di Capaci.

Un altro mistero è la revoca di centinaia di 41bis - il regime di carcere duro per i mafiosi - che l'allora responsabile della Giustizia, Giovanni Conso, sostiene di aver deciso «in totale solitudine». Misteri tra i misteri che l'indagine di Palermo tenta di illuminare con accertamenti e ricostruzioni di verità che ogni giorno trovano ostacoli, difficoltà e smentite.

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