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Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2012 alle ore 10:00.

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Non è un problema di regole violate, ma di «interpretazione» delle regole. Non è un problema di distruzione delle telefonate intercettate, ma di «mantenere la segretezza» sulle telefonate. Dalla Russia, il ministro della Giustizia cerca di focalizzare il succo del caso Quirinale-Procura di Palermo: un conflitto in senso tecnico, non una «contrapposizione tra poteri dello Stato» o, peggio, uno scontro. «Si tratta di una questione estremamente delicata» dice Paola Severino, che però non cambia le priorità dell'Esecutivo sulla giustizia facendo balzare al primo posto il ddl sulle intercettazioni.

«Le priorità restano corruzione e misure alternative al carcere» dice, mentre Pdl e Pd si accapigliano: Gaetano Quagliariello (Pdl) chiede un «confronto a tutto campo» su intercettazioni, anticorruzione e responsabilità civile delle toghe e Anna Finocchiaro (Pd) ribatte: «Sì al confronto, no alle provocazioni».
Le telefonate di Nicola Mancino a Giorgio Napolitano intercettate dai pm di Palermo nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia e il conflitto annunciato dal Quirinale monopolizzano la vigilia del ventennale della strage di via D'Amelio, anche se i toni si smorzano. Il pm Antonio Ingroia - pur ammettendo che «ad essere sinceri non ce lo aspettavamo» perché «pensavamo di aver applicato la legge nel migliore dei modi, di aver rispettato le prerogative del Capo dello Stato e di aver usato la massima cautela, tanto che non è uscita una sola riga del contenuto delle telefonate» - parla di «vuoto normativo», riconosce che l'iniziativa del Quirinale «è finalizzata a ristabilire le regole su un punto controverso» e auspica che la Consulta «dirima i dubbi».

Difende la «buona fede» dei magistrati palermitani il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso perché, dice, hanno agito «come ritenevano dovesse essere applicata la legge». Anche lui insiste sulla mancanza di «una norma specifica» e, quindi, ne fa una «questione giuridica», ormai «in buone mani», quelle della Consulta. Esclude «pressioni» del Quirinale su di sé («Sono solo stato chiamato a dare contezza della mia funzione istituzionale di coordinamento») e sulle toghe di Palermo. Osserva però che «in un'indagine, chi cerca la verità non può farlo sotto pressione, ma ha bisogno anche della collaborazione degli altri. Per vicende così datate nel tempo serve qualcuno che ricostruisca quel che è successo, servono dichiarazioni spontanee di chi sa».

Ma è dalle parole della Severino che si percepisce la volontà politico-istituzionale di non far deflagrare il conflitto in scontro. «Il problema - spiega - non è affatto se il comportamento tenuto dalla Procura di Palermo sia stato o meno corretto sotto il profilo della intercettabilità di una telefonata. Se si è trattato di un'intercettazione casuale, si poteva fare, ma il tema non è questo ed è bene chiarirlo perché da questo equivoco ne possono nascere molti altri». Il punto è «se debba prevalere una certa interpretazione della legge costituzionale sulle garanzie del Capo dello Stato o se si debba applicare la normativa comune sulla utilizzazione e utilizzabilità delle intercettazioni.

Se, cioè, anche per le intercettazioni che casualmente, e quindi lecitamente, riguardano il Capo dello Stato si debba applicare la procedura prevista dal codice per tutte le intercettazioni o una normativa speciale». In ogni caso, quale sarà la risposta della Consulta, per Severino «l'aspetto più importante è mantenere la segretezza sul contenuto di telefonate» riguardanti figure istituzionali protette per il loro ruolo, cioè «evitare di rendere pubbliche le telefonate del Capo dello Stato». Quanto basta per intravedere una stretta sulla pubblicabilità di queste telefonate e di quelle riguardanti terzi estranei. E su questo Pd e Pdl sono d'accordo.

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